venerdì 9 ottobre 2009

Fame spiegato a mia figlia*


C'era una scuola a New York, la High School of the Performing Arts, e c'erano dei ragazzi che seguivano delle lezioni. Balletti, canzoni, qualche tormento sentimentale. All'inizio era un film, (oggi esce il remake), poi diventò una serie tv, che ai miei tempi chiamavamo telefilm.
Era molto seguito, sì. Immagina High School Musical che diventa un telefilm, ehm, cioé una serie. Più o meno faceva quell'effetto lì, e noi eravamo già più grandicelli di te. Solo che Fame entrava di più dentro la fatica dei personaggi. Era anche storia di fallimenti, non solo di canestri riusciti all'ultimo centesimo di secondo. Leroy faceva innamorare come Troy Bolton, ma non gli filava mica tutto liscio. Neppure nella vita. E' morto nel 2003 a 41 anni.


Il mio preferito era Bruno Martelli, per via del pianoforte, certo (la nonna me l'aveva regalato l'anno prima). L'attore si chiama Leo Curreri, e oggi fa davvero il compositore. Era il mio preferito per quei motivi lì, ma non scattavano meccanismi di immedesimazione. Impossibile. Si guardava Fame, e si misurava alla perfezione la distanza fra le proprie capacità e il talento di un musicista vero o di un ballerino vero. Non c'era episodio, non c'era giorno, in cui Bruno Martelli o Leroy Johnson o Coco Hernandez non sembrassero irraggiungibili. Per non dire dei professori. In piccolo è come quando Buildo, anzi l'autorevole Buildo, dice che dopo aver letto Thomas Mann nessuno avverte più l'esigenza di scrivere. Quando avrai letto Doctor Faustus, gli darai ragione.
Ecco. Durante i 136 episodi che ci siamo sciroppati fra il 1982 e il 1987, avevamo la sensazione che l'ingresso nel mondo dello spettacolo costasse uno sforzo superiore alla somma delle energie a nostra disposizione. C'era una frase che tornava spesso durante il telefilm. Diceva: Voi fate sogni ambiziosi, successo, fama, ma queste cose costano, ed è esattamente qui che si incomincia a pagare, col sudore.
Non volevano spaventarti, con quella frase, né demoralizzarti: volevano semplicemente dirti come stavano le cose. Ti facevano capire che era quasi meglio iscriversi a ingegneria. Che la via per il successo nel mondo dello spettacolo, non è né breve né semplice. Studiare, studiare, studiare.
Eh?
Sì, brava, e poi sono venuti i reality show.

* E' un titolo che fa molto intellettuale (quelli che ai figli spiegano il razzismo, Auschwitz e Berlusconi)

3 commenti:

dtdc ha detto...

Gran bel post.A me piaceva Saranno Famosi, ma fino alla 50/60 puntata; dopo, ricordo che per far fuori gli attori, ricorsero a leucemie varie, catastrofi familiari e altro...poi è diventato un pò insulso.
E' anche vero che "Fame" (in italiano) è il destino a cui vanno incontro molti giovani artisti di belle speranze senza "passepartout". Ciao!

Stella ha detto...

bellissimo post!

Anonimo ha detto...

Fetente, non l'avevo letto...