domenica 16 maggio 2010

Il giro dei mondiali in 80 portieri: Gopane

E' un vantaggio. Dico a scuola. Ti nascondi dietro le spalle del compagno di banco davanti e la passi liscia. Sempre. Sempre no. Quasi. Essere bassini dà i suoi frutti. La maestra non ti vede. E se hai la fortuna di restare bassino anche a 12-13 anni, non ti vedono neppure i professori delle medie. Uno sballo. Il guaio è che c'è sempre un genitore che si preoccupa. Mica dei voti a scuola. Dico dell'altezza. E allora la mamma ti porta dal medico, il medico se ne esce con la solita storia che questo ragazzino deve fare sport, tu ti ritrovi a fare sport e diventi più alto. I professori ti vedono e fine della pacchia.
A me è andata così fino a un certo punto. La scuola, la mamma, il medico, lo sport. Però non sono diventato più alto. Sono rimasto sotto il metro e settanta. Non è proprio il massimo se lo sport che hai scelto è il calcio, e il tuo ruolo è quello del portiere. Sono nato il giorno dopo Natale a Bloemfontein, Sudafrica. Di nome faccio Motshweneng Simon, il mio cognome è Gopane. Giocavo nella squadra della mia città, i Celtic, quando la nazionale andò ai mondiali del '98. Loro partirono per la Francia, io rimasi a casa. Poi un giorno sento alla tv che s'è fatto male Andre Arendse. Penso: giocherà Paul, la riserva. Non sapevo che Paul Evans si fosse fatto male appena giunto in Europa. Perciò squillò il telefono a casa. Sbrigati, raggiungici, vieni ai mondiali. Sono stato il portiere più basso della storia a essere convocato, e anche il primo a sedere in panchina con la maglia numero 23: all'epoca i convocati erano 22 e non tutti portavano tre portieri. E comunque. Bella esperienza. In nazionale ho giocato solo una volta. Quando ho smesso, sono finito ad allenare i portieri. Sempre ai Celtic. Casa mia. Loro si chiamavano Shuaib Walters e Posnett Omony. Walters si sfasciò il ginocchio: dovettero operarlo. Rimase fuori tutto l'anno. Omony ogni domenica ne combinava una peggio dell'altra. Allora un giorno il presidente si avvicina all'allenatore, gli bisbiglia qualcosa, l'allenatore si alza e mi indica da lontano, Tu. Mi ributtarono in campo. In porta. Di nuovo sotto esame. Diciamo la verità: non c'è mai un compagno di banco tanto alto dietro cui nascondersi per sempre.

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