mercoledì 10 settembre 2014

De Biasi, il figlio del paese delle favole

GIANNI De Biasi quando parla dell'Albania dice «lì da noi». Se ne accorge e ride. Saranno tre anni di lavoro a gennaio, ma adesso comincia proprio a divertirsi. Dopo i play-off per i Mondiali sfiorati, è andato a vincere in Portogallo la prima partita di qualificazione agli Europei. «Ecco, lì da noi ora sono tutti convinti che passeremo. Mi preoccupa. Perché rilassarsi è nel carattere degli albanesi, perfino più che per gli italiani. Ma siamo in un girone dell'horror. Farei a cambio con chiunque. Non bastava il Portogallo, a ottobre ci aspettano la Danimarca e la Serbia, peraltro 15 anni dopo la guerra in Kosovo».


De Biasi, cosa sta diventando il calcio in Albania?
«Un fattore di gioia. L'ambiente contagia la squadra. Dopo ogni vittoria si ammazza il vitello grasso. Lo capisco. C'è un popolo a lungo dominato che desidera vivere. I ragazzi di Tirana hanno voglia di scavalcare gli altri per recuperare il tempo perduto. Una gioventù esplosiva, preparata, con una competenza pazzesca nelle lingue straniere».
E la nazionale che lei allena come se ne giova?
«Molti dei miei ragazzi sono nati all'estero. Vengono da realtà differenti, vogliono rifarsi una vita. I genitori si sono trasferiti, e non per fare gli architetti o i petrolieri, sono andati via per guadagnarsi la vita con lavori umili. Per loro il calcio è riscatto. Ma c'è chi sceglie di giocare in altre nazionali, dai loro papà mi sento dire: sì, l'Albania, ma tu cosa mi offri? La mia considerazione e la maglia del tuo Paese, questo offro. Altro non ho. Oggi chi nasce in Albania ha una chance in più, può studiare e trovare un lavoro qui».
Call-center italiani a Tirana, Pupo e Alessio Vinci nella tv italiana che trasmette dall'Albania, lei ct.
«Ne vedo tanti di italiani arrivare qui, anche dalla mia terra, il famoso Nord-est che era l'Eldorado d'Italia. Il costo del lavoro è un settimo, un imprenditore viene allettato dall'assenza di sindacati e da una busta paga più leggera».
La sua pesa un decimo rispetto a quella di Conte.
«Un decimo? Macché. Non guadagno così tanto, ma sono felice. Quanto a Conte, penso che non sia andato con la pistola a chiedere quei soldi. La Figc aveva la necessità di dare una certa immagine di sé. Di certo, in Albania 4 milioni non li avrebbe presi. Il budget totale della nostra federazione è di 7».
Dicembre 2011. Lei era sacchiano, aveva portato il Modena in A e aveva allenato Baggio. Perché disse sì all'Albania?
«All'inizio tentennavo, dell'Albania sapevo zero. Ma ci tenevo a fare un'esperienza con una nazionale. Mi sono messo a studiare la storia del Paese, i loro eroi, gli anni del regime. Accettai perché avevo voglia di scappare dal calcio italiano, che digerisco sempre meno».
Non le manca?
«Per niente. Guardo le partite, il 60% degli albanesi tifa per una squadra italiana, ma mi pare ci siano pochi talenti se le belle idee e la qualità vengono ancora da Pirlo. Il resto mi ha stufato: preferisco star bene in salute. Mi manca semmai il calcio della Spagna, dove ho allenato il Levante, in un anno di crisi economica e di grande orgoglio. L'orgoglio non si compra ».
Come vive a Tirana?
«In Albania un nostro pensionato farebbe il signore. Pesce e vino a pranzo con 20 euro, per un taxi in centro ne bastano 3. Ma ci sto poco. Solo 4 calciatori della nazionale giocano qui, il campionato comincia a crescere ora con la riduzione a 10 squadre. Arrivano serbi, croati e brasiliani. Ho un decoder albanese, seguo su Digital Alb, anche se per Tirana-Flamurtari allo stadio mi sono divertito. Il punto è che devo fare la trottola in giro per l'Europa per vedere tutti gli altri. La mia famiglia è rimasta a Conegliano, a Tirana sto in hotel, ci arrivo con un volo in un'ora e dieci».
Italia o Albania. Chi ha il futuro migliore nel calcio?
«Sono figlio di commercianti, i miei mi iscrissero in un collegio privato, con il doposcuola, per farmi studiare nel migliore dei modi. Mio padre non sapeva neppure cosa fosse il calcio, ma era il mio sogno e l'ho raggiunto giocando a pallone dietro la chiesa di Sarmede, il paese delle favole. In Albania, a parte la strada, oggi spunta qualche campo sintetico. Insomma si può fare di più, ma per me conta altro, la voglia di darsi un obiettivo, avere passione. In Italia ce n'è sempre meno. Guardo i ragazzi e li vedo cercare un capobranco dietro il quale andare. Ai miei lo dico sempre: avete una sola vita, vivete la vostra, non quella di un altro».

(la Repubblica, 9 settembre 2014)

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