sabato 18 ottobre 2014

La Grammatica del bianco: recensione Repubblica

«È MEGLIO una vita da Borg o una vita da McEnroe»? Ci sono stati anni in cui questa domanda oltrepassava i confini di un campo da tennis per mescolarsi con la vita di tutti. Borg e McEnroe non erano soltanto due modelli di gioco, uno freddo l'altro estroso, l'Orso e il Genio. Due stili di gioco: la volée e il rovescio a due mani, l'estetica e la sostanza. Erano anche due stili di vita. Hanno giocato molte volte l'uno contro l'altro ma la finale a Wimbledon del 5 luglio 1980 è stata il loro capolavoro. Una sfida epica che racconta Angelo Carotenuto in La grammatica del bianco e lo fa guardando la partita con gli occhi di Warren, un bambino inglese di undici anni, sul campo nel ruolo di raccattapalle. Lo sport è per Carotenuto un pretesto per penetrare la psiche di un ragazzino molto particolare, forse affetto da ADHD, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Attraverso quell'esperienza Warren uscirà dal guscio della sua emotività implosa, dalla paura che lo portava a non voler essere toccato da nessuno, a preferire l'ordine di una biblioteca ai giochi con gli amici, il flauto al calcio, la solitudine alla socialità, il bianco a tutti gli altri colori.
Anche per questo è affascinato dalle palline bianche di Wimbledon, dalle tenute candide dei campioni. Il ritmo delle palline sul campo non segna solo la scansione del gioco ma è un metronomo della mente di Warren, perché lo porta per la prima volta a dover considerare il numero Due. Fino ad allora Warren non sapeva andare oltre se stesso. Era Uno, per tanti motivi: perché il padre lo aveva abbandonato, perché la madre non la capiva, perché a scuola non si trovava bene.

C'è un prima e dopo quella partita nella vita di Warren. Il prima è fatto di giochi e pensieri solitari. Colleziona parole desuete, ha una propensione speciale per gli anagrammi. Sono giochi linguistici ma lo proteggono dalla durezza del mondo, costituiscono il suo rifugio. Il dopo, quello che succede dopo quel 5 luglio, è un nuovo modo di stare al mondo, che include gli abbracci, l'amicizia, il sorriso. Il tennis ha funzionato come terapia perché ha insegnato a Warren che si può sbagliare: «È un gioco che ha previsto la possibilità di sbagliare addirittura nel regolamento. L'errore è una circostanza. Il tennis è come Geppetto che ricostruisce a Pinocchio le gambe consumate dal fuoco». D'altra parte se perfino McEnroe sbaglia la battuta iniziale, perché non dovrebbe essere consentito qualche inciampo ad un comune mortale? Un romanzo di formazione in cui lo sport veicola un viaggio interiore: è il corpo che si fa mente.

(Raffaella De Santis, Repubblica, 17 ottobre 2014)

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