martedì 4 novembre 2014

Gigi Riva raccontato da Marcello Fois

UN UOMO, un popolo. Come un messia. «Perché Gigi Riva si è fatto sardo. È questa la forza del lunghissimo matrimonio fra noi e lui, il senso della grande passione che dura tuttora». Marcello Fois, scrittore e sceneggiatore sardo (ultimo romanzo "L'importanza dei luoghi comuni", Einaudi), aveva 10 anni quando il Cagliari, quel Cagliari, vinse il campionato.
«L'album delle figurine dei calciatori era come un documento di appartenenza. Stabiliva che il Cagliari era come la Juve, era come l'Inter. Eppure, quando nel resto d'Italia usciva, il mio edicolante non sempre l'aveva. A Nuoro poteva arrivare anche con una settimana di ritardo. Per comprare la moneta celebrativa del primo uomo sulla Luna, sarò passato a chiederla almeno dieci volte».
È così che nel 1970 si misurava la percezione di una distanza? 
«Era una vita ai margini, da confini dell'impero. Ma c'era comunque della poesia in quell'attesa, nel sentirsi dei figli cadetti, nel non sapere come si stava a tavola. Per tutto questo, forse, la figurina di Gigi Riva si conservava anche se era doppione».
Cos'era la Sardegna in quegli anni?
«Una regione che viveva una stagione terribile. L'anonima sequestri, Graziano Mesina, i Baschi Blu. Gigi Riva rappresentò il nostro ingresso positivo nella nazione. Era il volto della sardità. Dopo sono venuti Gianfranco Zola e Paolo Fresu. Ma lui è stato speciale, perché fu il primo e perché veniva da lontano. Veniva per restare».
Ed era tanto incredibile?
«Sì, perché tanti di noi nel tempo hanno dovuto decidere di essere un'altra cosa, di andare via, inseguire un lavoro, scavare nelle miniere altrove. Questo eroe strepitoso, invece, faceva il cammino inverso. E poi ha avuto il merito di unire una regione. In Sardegna i campanili contano moltissimo. Lui è amato da tutti, un patrimonio condiviso».
La prima volta che ha sentito parlare di lui?
«Prestissimo. Per un bambino dell'epoca arrivava prima o poi il momento in cui ci si accorgeva di essere parte di una nazione più grande. Il primo passaggio coincideva in genere con la lettura di De Amicis: il tamburino sardo. Il secondo era la scoperta di Gigi Riva».
Lo ha mai incontrato?
«Ho tentato di invitarlo una volta al Festival di Gavoi attraverso un'amica. Non osai farlo di persona, vivo nel terrore di disturbare Gigi Riva, un uomo schivo, così poco pubblico. Mi fece sapere che non sarebbe venuto per non offendere tutti gli altri a cui in precedenza aveva detto di no. Una risposta molto sarda, trovai strano che venisse da una persona nata altrove. O forse noi sardi siamo meno diversi di quanto pensiamo».
Gigi Riva quanto ha alimentato questa diversità?
«Prima di lui, pensavamo di appartenere a una zona depressa, inferiore. Scegliendo di stare fra noi, Gigi Riva è stato il primo invece a dirci che eravamo bellissimi e straordinari. Riva è stato per noi una grande esperienza di dignità, un esercizio di autostima collettiva. Credo di doverlo ringraziare per tutto questo».
(Repubblica, 3 novembre 2014)

Nessun commento: