mercoledì 5 novembre 2014

L'arte dell'autogol spiegata da Zapata


UNO poi dice la panchina lunga. Ci hanno indottrinato un po' alla volta, abbiamo imparato la corretta pronuncia di turnover, anni e anni di rieducazione culturale, e quando abbiamo smantellato l'idea che le squadre siano fatte di maglie che vanno dall'uno all'undici, una sera di novembre arriva a confonderci Cristián Zapata. Mentre in tre minuti Alex prenota un'altra ecografia al Milan Lab, lui mette i suoi chili e i suoi centimetri a disposizione della causa. Gigante, pensaci tu, gli fa Inzaghi come in quel Carosello. Ci penso io, lo sventurato risponde. E si alza dalla panchina. Ai vecchi frequentatori di San Siro passa tutta la vita davanti agli occhi e in un fotogramma rivedono Massaro, che più di tutti entrava e cambiava la partita. Ecco, Zapata uguale. La cambia pure lui. Spinge Gonzalez e si smarca in area. La sua. Poi salta indisturbato. La prende con la fronte piena, nemmeno tanto male, e la mette laggiù, angolo basso. In tv guardano e riguardano l'azione, ma sulla disarmante perfezione del gesto masochista (scatto, volo, impatto al contrario) trovano comunque qualcosa da obiettare. «Non l'ha colpita in modo aggressivo». Incontentabili. Devono essere dei nostalgici di Hateley.

Tanto crudele è l'autogol quanto commiserato. Nella storia del calcio ha funzionato come una nobile réclame della sconfitta. Senza disprezzo, casomai pietas. Almeno fino alla tragedia di Escobar, colombiano pure lui. C'è più biasimo per un rigore sbagliato che per un pallone scaraventato nella propria porta. Intere biografie campano di autogol. Gershom Cox, dell'Aston Villa, sarebbe già dimenticato se non avesse segnato il primo della storia. Era il 1888. È nato prima l'autogol dell'aeroplano. Chris Nicholl, in un 2-2 di Leicester-Aston Villa, fece tutto da solo: due di qua e due di là. Bobby Stuart, Middlesbrough anni ‘30, ne segnò cinque in un anno. E Stan van den Buijs, belga del Germinal Ekeren, tre in una partita sola. Contro l'Anderlecht. Sempre che in questi casi si possa dire "contro". Forse perciò al cospetto di Zapata, quelli del Palermo sono tornati a metà campo senza esultare, imbarazzati, come quando in ascensore si guarda la targhetta.

Un autogol di Niccolai
L'autogol altrui costringe a questa ascesi, sempre più rara da quando la Fifa ha depenalizzato deviazioni e rimpalli. Un Comunardo Niccolai o un Riccardo Ferri oggi vivrebbero nell'anonimato. Ma quello di Zapata è un autogol di vecchia scuola, resiste a Blatter e al logorio della vita moderna. Il risultato è che gli antieroi oggi sono più rari. Un tempo si poteva rimanere in oreficeria a brontolare sulle proprie sconfitte e si diventava Aureliano Buendia, oggi ti chiamerebbero sfigato. E allora può proprio un colombiano temere il fascino della sconfitta? Non può. Infatti. Non contento di aver provato il "falso nove", Inzaghi si attribuisce il rivoluzionario lancio del "falso cinque". Quello vero, che si chiamava stopper, già nel nome chiariva che di là non se ne parlava di passare. Bachlechner spaventava con la forza delle sue occlusive sorde, Brio e Bruno con mezzi più diretti. Zapata è invece della generazione che scivola di fianco, accompagna sull'esterno, arretra, arretra, finché l'altro, mettiamo Dybala, se ne va, con la metà dei muscoli e dell'altezza. Ed è così che il nuovo perdente, senza neppure più l'aureola dell'epica, si ritrova con la faccia nell'erba, a pensare che qui una volta era tutta campagna, e che in questa campagna giocavano Maldini e Costacurta.

  (la Repubblica, 4 novembre 2014)

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