venerdì 12 dicembre 2014

Ti fischio perché ti amo troppo

Lo striscione dei tifosi del Borussia: "E se tu cadi, io sto con te"
Lo striscione dei tifosi del Borussia: "E se tu cadi, io sto con te"
 Fischiare. Cioè “mandare un suono acuto e stridulo”. Per il vocabolario Treccani esistono quattro tipi di fischi. Per proprio diletto, come sotto la doccia. Per richiamo nell’uccellagione, come sanno i cacciatori. Per chiamare una persona, arte in cui dalla panchina eccelle Trapattoni. Oppure in segno di disapprovazione. “Stronzi”, dice Morgan agli ottomila di X Factor che lo contestano al Forum di Assago. “Metteteveli nel ...”, esagera Cigarini su Instagram contro i suoi tifosi e poi gli chiede scusa. Del resto sono giorni in cui si fischia. Nei cortei, nei consigli comunali, ai comizi. Negli stadi un po’ dovunque. Quelli di Bergamo hanno solo fatto più rumore. Succede che l’Atalanta va sotto di due gol contro il Cesena e i tifosi si fanno sentire. Siccome una partita non è finita finché non è finita, l’Atalanta rimonta, vince 3-2 e Colantuono chiude così il pomeriggio: "I tifosi? Non so cosa si aspettano". Bel tema.
Bel tema perché quello che accade a Bergamo, in fondo riguarda tutta l’Italia del calcio. C’è un virus negli stadi. L’insoddisfazione. A Torino, dopo il derby perso con la Juve al 93’, all’ultimo tiro della partita, un tifoso manda un urlaccio, rimprovera qualcosa a qualcuno, forse a tutta la squadra, nel frattempo tornata nelle Coppe europee dopo 20 anni. A Ventura, come dicono i ragazzi, gli sale il crimine. Fa un brutto gesto. Ti taglio la gola. Al Genoa, terzo in classifica, miglior piazzamento degli ultimi sessant’anni, non più tardi di 50 giorni fa Gasperini aveva perso la pazienza per un bel po’ di fischi raccolti dopo un pareggio in casa con l’Empoli. "Ditemi voi cosa volete dal Genoa: che vinca tutte le partite? Che non sbagli mai? Questo clima non lo riconosco, questa tendenza ad aspettare il risultato negativo per lamentarsi è assurda". Uguale a Napoli. Sebbene sia più recente il fallimento (2004) che l’ultimo scudetto (1990), una squadra oggi in corsa per il terzo posto vive nel malumore popolare, con i fischi al suo capitano Hamsik, come se fossero poi tanti gli ambiti in cui la città vale i primi tre posti in Italia. Da qui l’invito di Benítez a camminare "spalla a spalla", lui che a Liverpool era abituato alla filosofia di You’ll Never Walk Alone. Tutto mentre la Milano interista è reduce dai giorni in cui puntava un laser verde negli occhi del suo allenatore Mazzarri, poi esonerato sotto il peso di una pressione ambientale con pochi precedenti, completata dai nuovi fischi, virtuali e social, gli hashtag, #Mazzarrivattene. I fischi non sono certo una novità. Impressiona casomai adesso questa matrice comune, trasversale dal punto di vista geografico e di ceto calcistico, al punto da assomigliare a uno scollamento emotivo dalle vicende della propria squadra dopo decenni di retorica del "dodicesimo uomo in campo". Pare comune anche la provenienza. Se nella lirica dei fischi si fa carico il loggione, lassù, i posti più economici dove a teatro vanno a sedere i melomani veri, i competenti, allo stadio i fischi cominciano ad arrivare soprattutto dalle tribune. Dai sediolini dei vip, come ha raccontato Juan Jesus per San Siro, come s’è visto a Torino nel derby, come succede al San Paolo e a Marassi. Slogan? “Meritiamo di più”. Ma quanto di più? Di più e basta. Gasperini lo ha definito un clima di indisponibilità. Indisponibilità, aggiungo, all’attesa. Alla fiducia nel lavoro altrui. A un’apertura di credito. Indisponibilità ad accettare che esistano dei limiti ai propri passi, dei limiti alla capacità di spesa dei propri presidenti. Indisponibilità a rendersi conto del quadro complessivo del nostro calcio. Indisponibilità ad accogliere l’errore di un centravanti, che sia un campione sublime o una pippa atroce. Nulla cambia. Forse siamo cambiati noi. La tv ci porta in casa ogni settimana la grandezza di Real e Barcellona, del Bayern e delle squadre inglesi. Una bellezza che è qui, così vicina da sembrare familiare, a portata di mano, possibile. Una bellezza che a guardarla tanto da vicino ogni settimana ci pare finanche facile, scontata, normale, banale. Come se dietro non ci fossero soldi (quei soldi che all’Italia oggi mancano) ma anche e soprattutto lavoro, fatica e giorni bui di cui preferiamo non avere memoria. >Perché loro sì e noi no? Meritiamo di più. Ci siamo sfondati di parole con la cantera del Barcellona, ma negli anni in cui il Barcellona costruiva in silenzio e non vinceva, eravamo distratti. Guardavamo altrove e chi se li ricorda. Solo due anni fa eravamo qui a intronarci di chiacchiere perché l’esempio da seguire era quello del Borussia, facile a dirsi quando gioca la finale di Coppa dei Campioni, assai meno quando è costretto a vendere i suoi campioni. Uno all’anno. E comunque a Dortmund lo stadio era pieno pure negli anni dei sesti posti, ed era pieno la settimana scorsa con la squadra ultima in classifica, con uno striscione in curva che diceva: “E se tu cadi, io sto con te”. Ha scritto Gianmario Mariniello sul sito Extranapoli (ma vale un po’ per tutti): “Giusto chiedere di più. Assurdo pretendere la luna. Oppure facciamo un patto: pretendiamo da Napoli quanto pretendiamo dal Napoli. In pochi anni diventeremmo una città europea”. Invece no. Tutto è livella, pancia, viscere, invettiva. Con l’alibi della passione. Come quando due si lasciano. Ti fischio perché ti amo troppo. Se solo fosse vero.

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