venerdì 31 ottobre 2014

Nino D'Angelo e una maschera da strappare

“Ma io scrivevo versi bellissimi”.
Cioè?
“Tu, caramella che si squaglia e nun se fa mangia’”.
Gaetano D’Angelo, detto Nino, cantava cose così. Anni Ottanta. C’erano i Simple Minds e poi c’era ‘Nu jeans e ‘na maglietta, un milione di dischi venduti. “Il grande poeta Vittorio Annona era un mio fan”.
Non era un cantante, era un’icona. L’icona si porta dietro il suo mondo, e il mondo di Nino D’Angelo aveva uno stigma. Lui ci navigava dentro, comunque felice, verace e vorace, fra ragazzine che si strappavano le vesti e il sopracciglio sollevato dei critici e dell’intellighenzia. “Quando andai in concerto all’Olympia di Parigi, chiesi al direttore di un giornale perché avessero pubblicato solo un trafiletto. Mi rispose: D’Angelo, i fenomeni come lei vanno repressi”. Due mesi fa, invece, Le Monde gli ha riservato una pagina, scrivendo che le frange napolitaine ha dedicato la sua vita da giovane per costruirsi una maschera e la sua vita da adulto per strapparsela. C’è riuscito. Per questo oggi si sente libero di riportare sul palco quelle stesse canzoni, trent’anni dopo. Un concerto con gli stessi suoni d’allora, gli stessi arrangiamenti, “perché – dice - le canzoni sono come i quadri, devono restare nel loro tempo, quando vengono rifatte perdono energia”.

giovedì 30 ottobre 2014

Ali-Foreman secondo Giovanni Arpino

Rumble in the Jungle. When we were kings. Foreman-Ali. 30 ottobre 1974. Il match più famoso nella storia della boxe. Ne scrisse Norman Mailer. In Italia Giovanni Arpino, che il quotidiano torinese "La Stampa" mandò come inviato speciale in Zaire a seguire l'evento. Questo è il pezzo che Arpino scrisse 24 ore prima: sul giornale occupò l'intera pagina 3.


È arrivato il gran giorno per Ali, per quella che lui interpreta come una festa della "negritudine". Kinshasa è gonfia di nuvole, i temporali della prima estate esplodono con furia per placarsi poi in un clima afoso. Ma Ali Muhamad, sdraiato sull'erba nel suo "quartiere" di N'Sele, ride e chiacchiera con i prediletti esponenti della stampa americana. Costoro lo stuzzicano, l'invitano alla polemica. E il pugile nero accetta, giocando di fino. Definisce il suo avversario Foreman un "fratello ridotto dalle circostanze a lavorare per il sistema dei bianchi", non tralascia qualche piccola frecciatina verso il presidente Mobutu che troneggia dai manifesti. Poi, con un sorriso all'immagine dell'uomo politico, fa: "Scusami". E seguita a parlare dei problemi dei neri.

mercoledì 29 ottobre 2014

Rigore, rosso, squalifica: il triste destino del portiere


COM'ERA bella la vita quando uscivi di pugno, prendevi la palla, travolgevi gli avversari, nella mischia saltava un dente a qualcuno, e di soprannome magari facevi Kamikaze. Eri il portiere, diamine, e il regolamento prevedeva "la carica" ai tuoi danni, solenne come un peccato mortale. Esisteva un mondo perfetto che riconosceva la diversità del numero uno, la sua eccezionalità, i portieri erano nelle poesie di Saba. Dei matti si diceva dovessero essere, estroversi, anche se ce n'erano di tristissimi. Fino al giorno in cui il calcio ha cominciato a erodere differenze e immunità. Via (o quasi) la carica, via la possibilità di raccogliere con le mani il passaggio all'indietro di un compagno, e con un taglio dietro l'altro succede che al posto del Kamikaze una domenica pomeriggio ti ritrovi Nicola Leali.

lunedì 27 ottobre 2014

Napoli e i luoghi di Eduardo

ritratto di Eduardo (Tullio Pericoli)
LA CASA NATALE
È UN mistero da sciogliere. Quartiere Chiaia, dove a inizio ‘900 s'incrociavano Benedetto Croce e Giustino Fortunato, oggi la zona de "i baretti", un groviglio di stradine in cui si celebra la movida dei rampolli della borghesia. Un indirizzo certo manca. Nella biografia firmata da Federico Frascani (Guida, 1974) si cita via Bausan, corridoio verso la Villa comunale. Ma al civico 13 si rintraccia solo la finestra di un palazzone. Pietro Di Domenico, corniciaio, erede di tre generazioni di artigiani, nella sua bottega di fronte ignora l'eventualità. «Sapevo al 28», dice. Ma al 28 all'epoca doveva esserci una scuola. Il vicolo si industria nelle ricerche: «Dove sta ‘a casa d'Eduardo? Dotto', ma Eduardo è mmuorto…». Nella autobiografia di Peppino si fa invece riferimento a un appartamento nella strada parallela, in via Ascensione, al numero 3. Un portone anonimo. Semmai la sorpresa è un centinaio di metri più avanti, al civico 8, dove una targa ricorda la nascita di Peppino. Eduardo? Nulla.

Il calcio che vorrei: le voci degli invisibili

Francesco ha 12 anni e sentì lo sparo. Stava andando allo stadio, "e in quel momento", scrive, "tutti scapparono nel senso opposto ". Lo shock del 3 maggio, gli scontri a Tor di Quinto, la morte di Ciro Esposito sono un trauma che il calcio italiano ha provato in tutto questo tempo a guardare negli occhi il meno possibile. Sono passati sei mesi da quella sera e del "dopo" non s'è occupato più nessuno. Chiedetelo allora a Francesco e ai suoi coetanei cos'è Napoli-Roma di sabato prossimo, partita che fa così paura al punto che i grandi, gli adulti, l'hanno ignorata. Finché non è giunto il suo momento, 1° novembre, ore 15, sette giorni e ci siamo. "Mi chiamo Francesco Saverio Rossi, ho dodici anni, sono nato a Roma e tifo Napoli. Ho molta esperienza sulla partita Napoli-Roma poiché sono andato alla partita di Coppa Italia in cui il Napoli vinse 3-0 un bellissimo match clou, però dopo la partita ha avuto degli scontri nei pressi dello stadio".

martedì 21 ottobre 2014

Da Müller a Gabbiadini. Laboratorio punizioni


CHE la situazione stesse precipitando, si cominciò a capire nell'afa del 30 giugno, quando un uomo dal nome, dall'aspetto e dall'indole assai tedesca si ritrovò senza motivo apparente con le ginocchia a terra e il muso quasi nell'erba. Faceva caldo a Porto Alegre, la sera in cui Thomas Müller mise in scena il più avanzato fra gli schemi pensati per un calcio di punizione. Özil borbotta qualcosa, Schweinsteiger parte e finge di calciare, passando invece sul pallone a gambe larghe. A questo punto la fantasia si fa carne, penetra nel corpo di Müller ma esagera, un passo e mezzo e durante la rincorsa quello va giù, s'affloscia, più simile a un figlio di Benny Hill che a un nipotino di Beckenbauer. Sconcerto al Mondiale: possibile mai che sia caduto? Avendo gli allenatori riempito i loro staff di tattici e strateghi armati di gps, trattandosi poi di uomo di Germania, il nostro senso di inferiorità ci spinse a pensare che no, ma dai, era tutto studiato. Uno stratagemma per distrarre gli algerini, di questo si tratta, per forza.

sabato 18 ottobre 2014

La Grammatica del bianco: recensione Repubblica

«È MEGLIO una vita da Borg o una vita da McEnroe»? Ci sono stati anni in cui questa domanda oltrepassava i confini di un campo da tennis per mescolarsi con la vita di tutti. Borg e McEnroe non erano soltanto due modelli di gioco, uno freddo l'altro estroso, l'Orso e il Genio. Due stili di gioco: la volée e il rovescio a due mani, l'estetica e la sostanza. Erano anche due stili di vita. Hanno giocato molte volte l'uno contro l'altro ma la finale a Wimbledon del 5 luglio 1980 è stata il loro capolavoro. Una sfida epica che racconta Angelo Carotenuto in La grammatica del bianco e lo fa guardando la partita con gli occhi di Warren, un bambino inglese di undici anni, sul campo nel ruolo di raccattapalle. Lo sport è per Carotenuto un pretesto per penetrare la psiche di un ragazzino molto particolare, forse affetto da ADHD, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Attraverso quell'esperienza Warren uscirà dal guscio della sua emotività implosa, dalla paura che lo portava a non voler essere toccato da nessuno, a preferire l'ordine di una biblioteca ai giochi con gli amici, il flauto al calcio, la solitudine alla socialità, il bianco a tutti gli altri colori.

giovedì 16 ottobre 2014

Roma sul ring

Chiedi cos'era la boxe. Palazzetti pieni, serate in tv, passione popolare. Il secondo sport d'Italia accanto al ciclismo e dietro il calcio. Non era molto tempo fa. Chiedi cos'era la boxe e perché non c'è più, sparita, inghiottita in un buco nero senza campioni, implosa sotto il peso delle sue infinite sigle che hanno confuso e allontanato la gente. Quando eravamo pugili. Tutti lo eravamo un po', soltanto con lo sguardo, con il tifo, e benissimo lo racconta adesso Luigi Panella nel suo "Roma sul ring. Un secolo di boxe nella Capitale" (Ultra Sport, 187 pagine, 15 euro). Il Palaeur, l'Olimpico, piazza di Siena e il Foro Italico, il teatro Jovinelli e i cinema in cui bastava montare una pedana e delle corde per mettere in piedi una magia: si chiamava noble art, adesso ne vediamo la polvere. Un viaggio documentato ed emotivo fra le storie dei match combattuti a Roma e i suoi mille personaggi, piccoli eroi ordinari amati dalla città e grandi fenomeni venuti da lontano, su una mappa che attraversa Caracalla, il teatro Adriano, la palestra Borgo Patri. Da "Arci Mòre" a Monzòn, dall'Olimpiade di Cassius Clay ai trenta combattimenti di Nino Benvenuti, giunto la prima volta nel '54 per il campionato nazionale novizi. 

giovedì 9 ottobre 2014

"Un romanzo tennistico"

Carlo Magnani, professore ordinario di Composizione Architettonica e direttore del dipartimento di culture del progetto all'Università Iuav di Venezia, è un noto appassionato ed esperto di tennis. Tre anni fa ha scritto "Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno". Magnani scriveva: "Nel tennis Federer occupa la posizione di Heidegger nella storia del pensiero. Un uomo estremamente poco complicato si è ritrovato nel ruolo del Profeta, colui che porta finalmente la Reincarnazione e la Luce in un mondo compromesso e sconsacrato".
Perciò questo suo tweet mi ha fatto proprio felice.

mercoledì 8 ottobre 2014

Vita da arbitro

Il più crudele degli attimi. Dura due decimi di secondo. Prima c'è un orizzonte pieno di eventualità, dopo arriva il giudizio del mondo. La vita di un arbitro abita lì, nel mezzo, dentro il cuore di quella minuscola porzione di tempo che scorre lentissima, prima di ogni sua decisione. La sottile linea tra il giusto e il malfatto è nel soffio d'aria dentro il Fox 40, il nome dei fischietti che portano al collo, sono di plastica, quelli di ferro spaccano gli incisivi. Via pure la pallina interna. Così non si inceppano. Come se bastasse a far filare tutto liscio. Ne sa qualcosa Paolo Tagliavento, l'ultimo finito nella polvere dopo Milan-Juventus dell'ultimo week-end. A lui, come agli altri, tocca vivere il più crudele degli attimi almeno una trentina di volte in ogni giornata di lavoro. Significa una decisione da prendere ogni 3 minuti, e però in fretta, subito, con la stessa capacità di reazione di un macchinista delle ferrovie. Vent'anni fa si sbagliavano sei decisioni a partita, oggi ne basta una per finire sulla croce.

martedì 7 ottobre 2014

Allegri e Sacchi nel club degli allenatori nemici


CI SONO serate in cui davanti alla telecamera ti fanno sentire Udo Lattek. Quanto sei bravo, ma no sei bravo tu, hai detto tutto benissimo, macché tu più di me. E poi arrivano le serate in cui Max Allegri incrocia Arrigo Sacchi. Allora chiude gli occhi e gli passa la vita davanti, i quattro anni da milanista, pieni pieni di consigli che Berlusconi gli somministrava prima e dopo i pasti. Ora, sarà che le due sagome gli si confondono tra i pensieri, sarà che gli salgono alle labbra quelle parole che a Milanello non ha detto, ma succede che un fruscio dallo studio, un distinguo, passa per il rumore dei nemici e oplà, ci scappa il litigio. Addirittura due in una settimana, il primo in Coppa e il secondo in campionato, roba che ci sarebbe da invocare il turnover e poi puntare dritti al Triplete.

giovedì 2 ottobre 2014

Dudek il minatore e la rimonta di Rafa Benítez

dudek Rafa Benítez ci disse, Il Milan non sta bene. E noi a fissarlo. Non sta bene? Proprio così, rispose, ha avuto problemi tutto l’anno, fidatevi, fisicamente non sono pronti, non sono pronti come noi. Solo che quando tornammo negli spogliatoi, intervallo della finale di Coppa dei Campioni 2005, tre gol avevano fatto loro e nemmeno uno noi del Liverpool. Incrociai un attimo lo sguardo di Rafa e gli feci, Ehi mister meno male che questi stanno giù.
Giochiamo e divertitevi, così si raccomandò Rafa. Invece stavamo facendo divertire il Milan. Eravamo molto arrabbiati, le cose non andavano secondo i piani. Benítez allora chiamò Traoré e quasi si scusò, Grazie ma adesso esci, al tuo posto facciamo entrare Hamann. C’era una voragine da quella parte del campo. Traoré abbassò lo sguardo, sfilò maglia e pantaloncini e mormorò una cosa tipo okay, va bene così. Steve Finnan, dall’altro capo dello spogliatoio, se ne stava sdraiato su un lettino. Aveva dolore a una coscia. Non ce la faccio, confessò sotto voce, ma il fisioterapista filò dritto da Benítez a riferirglielo. "Guarda che quello regge al massimo venti minuti". “Quello chi?”. “Finnan”. Rafa fissò prima uno poi l’altro e chiese se facessero sul serio. “Allora Finnan grazie, grazie per quello che hai dato, esci tu e Traoré rimane dentro”.