martedì 24 febbraio 2015

Il calcio matematico di Hitzfeld



PERUZZI , Ferrara e Deschamps. Zidane, Boksic e Vieri. Che Juve, la Juve di Lippi. In Europa non perdeva da 11 partite. Fino a quella sera lì, 28 maggio ‘97. «La chiave di tutto era convincere i miei che potevamo batterli». Infatti. 3 a 1 per il Borussia (due gol di Riedle). «Credi in te stesso. È stata la mia filosofia ». Ottmar Hitzfeld era il motivatore di quella banda capace di riportare dopo 32 anni lo scudetto a Dortmund e dopo 14 la Champions in Germania. È l'uomo che ha tolto per sempre di dosso a un ambiente la paura di vincere. Oggi commenta il calcio per Sky nel suo Paese. Nessuno più di lui sa cos'è il calcio a Dortmund.
«Arrivai nel ‘91, c'erano dei sogni, li abbiamo realizzati. La Ruhrpott è la regione degli operai, del lavoro durissimo. Non c'era altra cosa che il calcio, la vera religione di quell'area. Diventammo campioni con Chapuisat in attacco, uno svizzero che non erano in tanti a conoscere. Io sì, io venivo dalla Svizzera».

Stadio sempre pieno. Anche quando la squadra va male. Cosa c'è di speciale a Dortmund?
«Chi ama, mostra la sua passione, no? E chi ama, non lascia morire il proprio amore se le cose vanno male. Si resta uniti anche cadendo. Questa è l'eccezionalità di Dortmund, da sempre. Questo modo di vivere la squadra è una tradizione che si tramanda ai figli, ai nipoti. È il potere di una storia. Anche al Bayern ho vinto una Champions. Ma lì è tutto diverso, al Bayern il calcio è show-business».
Bassa classifica in Bundesliga e primo posto nel girone di Coppa. Come spiega questa strana stagione del Borussia?
«Davvero qualcuno crede che il Borussia possa retrocedere? Ha grande qualità, è una squadra fortissima. In campionato gli avversari hanno sfruttato certi squilibri. Vanno in gol e davvero sono in vantaggio. Nel senso che quelli del Borussia stanno lì e pensano: oddio, di nuovo, non è possibile. Così hanno iniziato a dubitare di loro stessi. Non sono situazioni semplici da risolvere. Ma in società sono stati bravissimi. Non hanno mai lasciato spazio a dubbi sul futuro di Klopp».
Intanto Immobile è scivolato in panchina. Che gli succede? È adatto alla Bundesliga?
«Certo che sì. È stato sfortunato a trovarsi nel cuore di una squadra in crisi. Uno straniero che arriva, ha sempre bisogno del soccorso di chi sa come vanno le cose lì. Solo che i giocatori d'esperienza a Dortmund avevano tanto di quel lavoro da fare con se stessi da non potersi occupare del suo ambientamento. Ma con uno della classe di Immobile, questi processi non possono finire in un disastro. Forse i passi durano più a lungo del previsto, ma arrivano dove devono».
Torniamo al 1997. La sua finale. Sul 2-0 entra Del Piero, segna di tacco e lei pensa che… 
«Pensai che avrei dovuto odiarlo e non ci riuscivo. È un giocatore che ho sempre ammirato. Neppure nel momento in cui un suo gol mi creava problemi, sono riuscito a rispettarlo di meno».
E che effetto le fa adesso vederlo in Australia e poi in India?
«Del Piero non gioca a calcio. Del Piero il calcio lo vive. Perché dovrebbe smettere? Io gli chiedo di continuare il più a lungo possibile».
Cos'è diventata la Juve oggi, diciotto anni dopo la vostra sfida?
«Resta una squadra grandissima, la più forte della serie A. Si sta riavvicinando alle migliori d'Europa. Presto ne sapremo di più. Ha un grande Pogba che può diventare da Pallone d'oro, a patto di vincere titoli internazionali: vediamo se ci riesce già agli Europei con la Francia. Ma la Juve non è soltanto lui. Lichtsteiner non smette di crescere: un difensore svizzero nella migliore squadra del Paese con la maggiore tradizione di difensori nella storia. Incredibile».
È vero che lei si chiama Ottmar in omaggio a Ottmar Walter?
«Era il calciatore preferito di mio padre, un campione del mondo del ‘54. Mio padre mi ha sempre incoraggiato, lui mi regalò il primo pallone. Quando si usciva la domenica mattina, lo lanciavo davanti a noi e lo inseguivo: era l'unico modo di sopportare la passeggiata di famiglia. Anche i miei fratelli sono diventati calciatori. Mio padre ha solo preteso che studiassi. Normale, erano altri tempi. Mia madre, invece, credo che sarebbe stata più contenta se io avessi fatto il pastore».
Allora si è laureato in matematica per far felice suo padre?
«Era la materia in cui già da bambino eccellevo. Mi veniva facile. Ero convinto che sarei diventato un bravo professore. Invece non sono riuscito a insegnare. Ogni tanto mi chiedo se ho sbagliato lavoro».
C'era matematica nel suo calcio?
«Qualcuno lo sosteneva. Per via delle tante rotazioni che facevo al Bayern. Il punto è che si giocava ogni tre giorni, alternare i calciatori era un'esigenza normale. Invece, dopo una sconfitta, perfino un grande ex come Rummenigge mi criticò. Disse: il calcio non è matematica. Non seppi spiegarmelo».
Critiche? Ma lei in Germania non è chiamato "Gottmar", un po' dio e un po' Ottmar?
«Quando stavo per diventare ct della Svizzera, un giornale titolò: "Arriva il messia". I giornali hanno grosse responsabilità nel creare false attese. La gente poi aspetta i miracoli. Sembrava che avrei portato la Svizzera a vincere i Mondiali. Vidi quel titolo e pensai perfino di non firmare più. Questo per dire che Gottmar non mi piace. Capisco che i giornalisti siano sotto pressione. È più difficile vendere copie. Ma non vuol dire che io debba accettare tutto quello che si scrive».
25 anni prima di vincere la Champions contro la Juve, sempre a Monaco lei aveva partecipato alle Olimpiadi con la nazionale.
«C'era questa grande sala da pranzo in cui ci mescolavamo, ricordo le chiacchierate con Mark Spitz. E ricordo i giorni della paura e dell'incertezza, dopo l'attentato al Villaggio. Restammo chiusi lì senza informazioni. Cos'era successo veramente? Come volevano reagire le autorità? Ci sarebbero stati altri attacchi? Misteri. Capimmo solo che i Giochi sarebbero andati avanti».
Così arrivò un suo gol in una sfida speciale: Germania ovest contro Germania est.
«Era la battaglia del prestigio. Ma loro erano professionisti veri, noi tanti dilettanti. Oggi il calcio nell'ex Ddr fa fatica a riemergere perché mancano investimenti. Oggi si afferma quel calcio che sa incrociare gli interessi economici».
Il calcio italiano saprà uscire dalla crisi?
«L'Italia avrebbe bisogno di ospitare un Europeo o un Mondiale per rifare i suoi stadi e darsi infrastrutture moderne. La Federcalcio dovrebbe concentrarsi di più sullo sviluppo dei settori giovanili. Vi manca un po' di coraggio e di fiducia nei ragazzi».
Ha mai avuto offerte per allenare in Italia?
«Mai. Nessuna. Dal Real Madrid sì. Proprio dopo la Champions del ‘97. Sarei diventato ricco, ma non conoscevo la lingua, non parlo spagnolo. Ho sempre fatto le mie scelte in base ad altro».
Ha avuto un modello d'allenatore?
«Mi impressionavano le squadre di Ernst Happel. Pressing e fuorigioco. Il suo era un calcio intelligente ».
È un rimpianto non aver mai allenato la Germania?
«I rimpianti sono un inganno. Non esistono».
Che cosa intende?
«Non ci sono scelte di cui lamentarsi. Ho sempre vissuto in un modo solo. Rifletto, decido e stop. Avrei potuto prendere la squadra dieci anni fa. Però ero malato. Bruciato. Vuoto. Mi mancava l'energia. Non avevo bisogno della nazionale tedesca, ma di tempo per me. Allora sono andato con mia moglie a Engelberg, un piccolo villaggio fra le montagne della Svizzera centrale. Un po' alla volta mi sono ritrovato ».
Fra le alpi svizzere le hanno anche intitolato uno stadio. Ci va mai?
«Lo stadio è a Gspon, duemila metri d'altezza. Un campo artificiale. La Ottmar Hitzfeld Arena è nata lassù quasi per gioco. Ogni tanto ci vado, sì, mi godo le partite del campionato dei villaggi montanari. L'ambiente è speciale. In ogni senso».
Signor Hitzfeld, a 66 anni quanto le manca la panchina?
«Ho deciso che avrei lasciato durante un volo con la nazionale svizzera da Zurigo a Tirana, durante le qualificazioni per i Mondiali in Brasile. Era giusto così, anche se sapevo che stavo facendo prevalere la testa sul cuore. No, non mi manca la panchina. Mi mancherebbe il calcio, questo sì. Ma il calcio ce l'ho. È dentro di me».

(la Repubblica, 23 febbraio 2015)

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