lunedì 16 marzo 2015

Aubameyang e il calcio respirato da Dortmund


MEGLIO che la Juve lo sappia. «Questo è un posto unico, una città che vive per il calcio. Dortmund ha il calcio nel suo respiro». E se la Juve già sa o immagina quale ambientino troverà intorno a sé mercoledì sera, c'è comunque Pierre-Emerick Aubameyang a ricordarle adesso che «il lavoro fatto durante la sosta invernale sta pagando. Insomma, noi siamo pronti». Pronti ad accendere il fuoco sotto l'acqua che bolle dentro il Westfalenstadion, dove negli ultimi venticinque anni mezzo calcio italiano ci ha lasciato la pelle: la Roma di Boskov e Giannini, la Lazio di Zeman e Boksic, il Parma di Ancelotti con Cannavaro e Buffon (nonostante due rigori parati), ancora Ancelotti con il Milan di Maldini, Pirlo e Inzaghi, fino all'ultimo Napoli di Benitez. Ma qui proprio la Juve ha vinto tre volte (nel ‘93, e due nel ‘95), qui l'Italia di Lippi con un ricciolo di Del Piero batté la Germania per andare in finale Mondiale. Da Dortmund a Berlino: la rotta per la Juve, nove anni dopo, è la stessa. Col Borussia di mezzo.
Aubameyang, perché c'è il calcio nel respiro di Dortmund?
«È tradizione. Ha radici profondissime. Tra la squadra di calcio e la città esiste una relazione meravigliosa. Unica. Da noi c'è la media spettatori più alta d'Europa. Ma i tifosi del Borussia, diventati 10 milioni in Germania, sono sparsi in tutto il mondo. Perciò la società ha aperto una sede a Singapore. Mi hanno detto che la lista d'attesa per l'acquisto dell'abbonamento del prossimo anno è arrivata a quarantamila persone. Non è incredibile?».
Eppure siete anche finiti per un po' all'ultimo posto. Non è cambiato proprio niente?«Niente. Io credo che il segreto di quest'ambiente speciale stia nel grande rispetto reciproco che esiste fra noi e la gente. Abbiamo attraversato una piccola crisi e siamo scivolati in fondo alla classifica, ma nessuno ha mai perso la calma, tutti sono rimasti composti. Anziché fischiarci o contestarci, la Südtribune ci chiamava lo stesso lì sotto per applaudirci. Anche dopo le sconfitte. Non è una cosa comune nel resto d'Europa. Io sono orgoglioso di appartenere a una storia del genere».
Cosa deve temere di più la Juve: questo ambiente speciale o voi?
«La forza del Borussia è la solita. Sta nel pressing, nel contropressing e nel contrattacco veloce. Nelle ultime settimane abbiamo riguadagnato la nostra stabilità in difesa. In Bundesliga non perdiamo da sei partite. Molti compagni sono rientrati dopo gli infortuni. Il lavoro fatto durante la sosta invernale sta pagando. Insomma, noi siamo pronti».
E la Juve come sta? Le pare pronta?
«Non lo so. Io penso al mio Borussia. So che troveremo una Juve in grande forma, questo sì, è sempre la squadra che guida la classifica di un grande Paese».
È una squadra ancora molto lontana dall'élite del calcio europeo?
«Dico la verità. Non lo so. Non lo so perché quando non gioco, non guardo molte partite di calcio in tv».
Una volta Klopp ha paragonato il Borussia Dortmund a un gruppo di heavy metal. Le piace la definizione?
«Credo volesse dire che nelle nostre partite succedono un mucchio di cose, sono piene di azioni. Basti pensare al quarto di finale di Champions contro il Malaga due anni fa. Penso che Klopp volesse intendere che siamo una squadra sempre molto compatta, molto unita, e che quando in campo c'è il Borussia non ti annoi mai. E comunque anche io che non impazzisco per l'heavy metal, trovo che lo stile del Borussia sia fantastico ».
Forse è un po' meno entusiasta Immobile. Che gli succede? Come mai fa tanta fatica in Bundesliga?
«Intanto va detto che il Borussia gioca in modo unico. Anch'io, quando sono arrivato l'anno scorso, ci ho messo un po' di tempo per entrare in questo meccanismo. Lewandowski, al suo primo anno qui, non solo non segnava tanto, ma neppure giocava molto. Invece Ciro ha già fatto 10 gol in tutto, di cui quattro in Champions. Ci darà una mano. Io credo che avere un po' di pazienza nel calcio sia sempre d'aiuto».
Chi le ha trasmesso tanta saggezza, suo padre Pierre?
«Ero bambino quando lui giocava a calcio da professionista. L'ho visto molte volte in campo, è stato la mia fonte d'ispirazione. Se la sua squadra vinceva, mi prendeva per mano e mi portava negli spogliatoi. Era il mio premio partita. Quei giorni li ricordo come meravigliosi, senza pensieri. Lo ringrazierò sempre per avermi avvicinato al calcio».
Lui giocava in difesa, lei è diventato attaccante.
«Sì, ma lui mi ha insegnato come superarli, i difensori. È stato il mio primo maestro. Era un istruttore severo, duro, esigente. Quando ero bambino giocavamo spesso insieme. Usavamo due alberi come porte. Papà non mi chiedeva di fare gol, ma di colpire uno dei due tronchi con il pallone. Non vorrei che detto così sembrasse facile, perché giuro che non lo era».
Un anno con la Triestina, poi papà comincia a lavorare come osservatore del Milan e lei finisce nelle giovanili.
«Ero troppo piccolo, di Trieste ricordo poco, se non che lì ho cominciato a imparare l'italiano. A Milano ci sono cresciuto. C'era tanta attesa per me, tanta attenzione nei miei confronti.
Le pesava?
«No. Non mi dava fastidio che mi chiamassero il piccolo Inzaghi. Al contrario. Capivo che era un complimento. Anche se io mi sento un attaccante completamente diverso da lui. Ricordo il debutto in prima squadra, durante una tournée: c'erano anche il fratello di Kakà e il figlio di Ancelotti».
Quanto è cambiato il calcio italiano rispetto ad allora?
«Sento parlare tanto di problemi, ma non mi va di giudicare per sentito dire. Io sono qui, sono troppo lontano».
Cos'è successo con la storia dell'esultanza con la maschera di Batman? Sky ha criticato e Klopp si è arrabbiato. Com'è nata?
«Allora. Io e Reus siamo molto amici, per me è come un altro fratello. Volevamo fare qualcosa di differente per il derby con lo Schalke, eravamo a cena ed è spuntata fuori quest'idea di metterci le maschere di Batman e Robin per festeggiare. Era una sorpresa per i tifosi in una partita speciale, visto che loro hanno tanto sofferto con noi».
Invece è stata giudicata male.
«La vittoria in un derby porta sempre una scarica di adrenalina in più. E poi in quella partita avevamo tirato in porta 32 volte e l'altra sera contro il Real Madrid abbiamo visto che squadra sia lo Schalke, di certo non è l'ultima arrivata. Ci siamo detti: facciamolo. Era un regalo ai nostri tifosi, tutto qui».
Sono pronte altre maschere per mercoledì?
«Ne avevo già usata una di Spiderman per un'altra esultanza. Ma la verità è che se non fossi me stesso, mi piacerebbe proprio essere Batman. O almeno Robin. Chi lo sa».

(la Repubblica, 16 marzo 2015)

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