mercoledì 18 marzo 2015

Quando allenare ti fa invecchiare


GLI hanno comprato Shaqiri, gli hanno comprato Podolski, non sarà difficile comprargli anche un collirio. Costa meno e risolve l'ultimo problema dell'Inter. Gli occhi rossi di Mancini. «Non ho pianto. Forse è il dolore», ha mormorato domenica sera in televisione, non si sa se solo mogio o molto confuso, sotto il tiro flebile di domande più imbarazzate di lui. Era il dolore di una scoperta. La rivelazione della verità sulla sua squadra, sull'irraggiungibilità della Champions e su un'avventura che s'aspettava diversa. Detto chiaro e tondo: «Forse sono stato troppo ottimista». E forse sì. Pensava fosse Europa, invece era un castello in aria. Più grave del suo peccato di fiducia, è stata solo la fanfara che la accompagnava. L'ultimo passo che allora gli resta è inconfessabile. Chiedersi se davvero ne valesse la pena.
Negli occhi di Mancini dopo l'1-1 col Cesena c'è il colore di una crisi dai risvolti economici ancora incalcolabili. Ma il suo è anche il dolore dell'allenatore che scopre la condanna alla gestione della sconfitta in solitudine. Ognuno poi somatizza a modo suo. Zeman, ventiquattr'ore prima, aveva preso schiaffi dal vento e l'ultimo, più forte degli altri, al 93' dall'Empoli. Erano cori di bentornato all'intervallo e alla fine soltanto il silenzio, in certi casi i fischi sono meglio. Ha infilato le mani in tasca, gli occhi nel vuoto e ha aggiunto una ruga sulla faccia. Almeno sorrideva. Che altro poteva fare. «Abbiamo preso due pali? Se ci sono porte, ci sono anche pali. Calcio è così ». Calcio è così. Perdere è dolore. Benitez a Verona è diventato paonazzo. Quando qualcosa non va, le guance gli diventano ciliegie. Sono l'equivalente del famoso sopracciglio sinistro di Ancelotti, che s'alza di un paio di centimetri quando di mezzo ci sono le emozioni. Che si tratti di noia, di una bugia o della fitta di un 4-3 preso in casa dallo Schalke. Le panchine consumano più del campo. Se n'è accorto Luca Toni, che dall'alto dei 38 anni vede avvicinarsi il sipario e allora già ha deciso: «Non farò l'allenatore. L'ho capito guardando Inzaghi. Quanto è invecchiato...». Un tormento, prima o poi, tocca anche ai grandissimi. Lippi tradiva il suo toccandosi le stanghette della montatura degli occhiali, a Capello pare che gli si allunghi un altro poco la mascella, mentre Mourinho dolore non ne ha. Nel senso che dentro non rimane: lo trasforma in schiuma. Perdere deve fare veramente male, se un giorno Trapattoni andò in panchina dopo una fiala di Toradol, prese un gol a Udine con la sua Fiorentina in corsa scudetto e disse: «Ho sofferto più per la sconfitta che per la colica renale». Il lavoro emotivo, come lo chiamerebbero i sociologi, un allenatore lo fa per conto di tutti. Scrive Tom Lutz, in "Storia delle lacrime" (Feltrinelli): «Un qualsiasi allenatore di football del liceo svolge un'enorme quantità di lavoro emotivo per affermare e celebrare il benessere e lo status della sua squadra». Poi una sera ti segna Defrel, il benessere è sparito e rimani senza maschera e senza compagnia a gestire quella catasta di sentimenti. Il sindacato allenatori dovette preoccuparsi di fissare la norma secondo cui un esonerato non poteva prendere una squadra nella stessa stagione. Evidentemente qualcuno voleva. Ora c'è sempre più spesso chi sceglie di staccare. È nato l'anno sabbatico: Guardiola, Luis Enrique, Guidolin. La gestione della sconfitta è un peso. Pochi la trasformano in arte. Mondonico si diede una strategia infallibile. «Non era questa la partita da vincere», ripeteva una quindicina d'anni fa dopo ogni partita persa a Napoli. La squadra lo prese così sul serio da non vincerne più quasi nessuna. Però vuoi mettere. Andare in serie B con dolcezza, sotto anestesia, con la normalità del gelo emotivo. Senza contestazioni. E senza neppure gli occhi rossi.

(la Repubblica, 17 marzo 2015)

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