martedì 20 ottobre 2015

Bonhof e il Borussia prima del Borussia

Rainer Bonhof in maglia bianca contro il Liverpool

C'ERA un Borussia prima che arrivasse il Borussia. Oppure, come dice Rainer Bonhof, di Borussia ieri e oggi, ce n'è sempre stato uno: «Noi». Mentre a Dortmund erano in B, un puntino sulla carta geografica della Germania diventava famoso a metà anni Settanta per il suo calcio, bello e di successo. L'Europa imparò la pronunzia di Mönchengladbach solo per poter dire contro chi perdeva: 5 campionati su 8 soffiati al Bayern del ciclo d'oro, più una Coppa Uefa e una finale di Coppa Campioni. Mercoledì ritrova la Juve, come nel ‘75, dopo una lunga discesa all'inferno: il terzo posto della scorsa Bundesliga è il miglior piazzamento dal 1987. Rainer Bonhof, uno dei leader di quella squadra, campione del mondo nel ‘74, oggi è vicepresidente.
Cosa hanno in comune l'esperienza degli anni Settanta e la squadra di oggi?
«Il nome, credo, e basta. Il calcio è cambiato. Sono saltate abitudini, costumi, gerarchie. I diritti tv hanno modificato il quadro in cui il Borussia era una potenza. Non dico che sia impossibile ripetersi, infatti il club si sta attrezzando, ma quei presupposti sono stati stravolti».
Kleff, Vogts, Netzer, Heynckes, lei stesso: mezzo Borussia era nato nella regione. Resta un modello valido?
«I Fohlen-Elf . Gli undici puledri. Ci chiamavano così. Il soprannome è rimasto. La filosofia non è cambiata. Il 30 per cento della prima squadra viene dal vivaio. Non so perché in Italia non è così: ma se non c'è posto in A, meglio cercarne in Serie B. Oggi però contano di più le strutture. Noi avevamo uno stadio da 25mila posti, le partite importanti andavamo a giocarle a Düsseldorf. Si poteva vincere senza essere potenze economiche. Per fortuna ora il nostro stadio ha 55mila posti ed è uno dei più belli di Germania».
Lei come arrivò al Borussia?
«In macchina (ride). Giocavo nella mia città, Emmerich, un centinaio di chilometri da Mönchengladbach. Vennero a vedermi, a 18 anni mi offrirono un contratto. Anche altri due miei fratelli giocavano. Mio padre, di origini olandesi, era stato un discreto giocatore. Se non avessi fatto il calciatore, forse sarei finito a guidare una Ferrari, a correre in F1 come Frentzen e Heidfeld, che sono tutt'e due di qui. Guidare è una mia passione».
Qual è l'eredità di quella squadra?
«La strada che porta allo stadio è dedicata a Hennes Weisweiler, l'allenatore che creò quel Borussia. Era avanti di decenni. Lui sapeva di cosa avevi bisogno. Era un coach se volevi un coach, era un padre se cercavi un padre. Sapeva quando darti un calcio in culo e quando farti una carezza. È stato un maestro per una generazione di calciatori e un modello per chi si è seduto in panchina dopo di lui».
Quanto vi pesa la potenza dell'altro Borussia?
«Nel calcio esistono i cicli, ora è il momento di Dortmund. Sono stati bravi, hanno seminato, da qualche anno raccolgono. Magari si sentiranno il vero Borussia. Punti di vista. Ho degli amici là. Ci prendiamo spesso in giro. Per me il vero Borussia è a Mönchengladbach. Siamo noi. Ma i rapporti sono buoni. Ci accettiamo (ride). E poi in Westfalia non ci siamo mica solo noi: ci sono Schalke, Colonia, Leverkusen. Non è come in Italia, dove tra una squadra e l'altra passano duecento chilometri».
Esiste un complesso di inferiorità del calcio tedesco verso quello italiano?
«Se guardo alla rivalità del passato, penso che vi abbiamo sempre invidiato gli stadi pieni. Ma adesso? L'Italia dovrebbe combattere per riportare la folla nei suoi stadi. Forse è una questione di prezzi dei biglietti».
Cosa le piace del calcio italiano?
«Facchetti era fantastico. Anche Mazzola. Anche Causio. Oggi non mi viene in mente nessuno. A parte Pirlo, intendo. Ma Pirlo gioca ancora in Italia? Non più, vero? Ci saranno altri bravi calciatori, forse tra i giovani: Balotelli per esempio è bravo, ma cambia troppe squadre. Non conosco bene la serie A. Guardo i risultati, la classifica. Non è come per la Spagna, dove giocai per un po', a Valencia, e dove conservo contatti».
Nessuna italiana la cercò nel 1980 a frontiere riaperte?
«Nessuna. Mai. Forse non ero abbastanza bravo per l'Italia».
Com'era l'Italia da avversario?
«La partita del 1971 con l'Inter fu una delle più belle della nostra storia: 7-1 per noi. Ma la ricordano come la Büchsenwurfspiel, la partita della lattina. Non ci avrebbero fermati neppure se Boninsegna fosse rimasto in campo. Contro la Juve nel '75 mi colpì che avessero un calciatore di 39 anni, Altafini».
L'anno dopo il Torino.
«Il Torino?».
Coppa dei Campioni. Il Torino in otto, tre espulsioni, Graziani che va in porta al posto di Castellini.
«Davvero? Non ricordo nulla. Zero. Ho rimosso».
È vero che il portiere del Liverpool, Clemence, era terrorizzato dalla potenza del suo tiro?
«Sì, per questo gli feci gol su punizione. Si scansò. La palla aveva un grande effetto, lui ebbe paura di prenderla in faccia. Ci siamo rivisti molte volte dopo e ne abbiamo riso. Ogni tanto gioco ancora con gli amici il sabato mattina, ma non tiro più così forte, deve essere colpa dell'erba sintetica (ride)».
La Juventus in finale a Berlino l'ha sorpresa?
«Per niente. Non è stato un risultato inatteso. L'Italia ha comunque tanti club eccellenti. Non solo la Juventus. Penso a Napoli, Roma, Inter, Milan».
E voi siete all'altezza di questa Juve?
«Abbiamo una squadra tosta, un gruppo che combatte. Veniamo a Torino per provarci. Non fa parte della nostra idea del calcio giocare una partita a metà».
Bonhof, qualche volta ha nostalgia del suo Borussia?
«Oh, tanta. Tantissima. Ma a cosa serve?».

(la Repubblica, 19 ottobre 2015)

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