sabato 16 gennaio 2016

L'eccezione di Sacchi


Giochi bene, vinci e torna quella parola. Utopia. Come dire: un'aspirazione irrealizzabile. «Perché in Italia siamo fuori dal mondo. Giocar bene e vincere non è un'utopia in Brasile, in Inghilterra, in Spagna, in Olanda». Ventotto anni dopo il Milan di Arrigo Sacchi, forse ci risiamo, se a dirlo è proprio lui: c'è un nuovo calcio all'italiana.
«Questo è il campionato più interessante degli ultimi 50 anni, non solo per l'incertezza. L'Italia sta uscendo da una dittatura tattica, da un'era in cui il portiere se ne stava sotto la traversa cascasse il mondo, il 2 faceva il 2, il 6 faceva il 6, già era tanto se avevi una seconda punta accanto al 9. Penso a Napoli, Fiorentina, Empoli e Sassuolo che al centro mettono il gioco. La Lazio ci prova, la Roma ci provava. Nonostante il pericolo del divismo e del business, c'è una democrazia calcistica in atto. L'avanzata del merito».
Perché in Italia è così difficile?
«Il calcio è lo specchio della vita di un Paese. Ogni popolo vi riproduce cultura, mentalità, abitudini. Non abbiamo mai definito cosa sia per noi il calcio. Non uno sport: lo sport ha delle regole e una morale, noi abbiamo scandali quotidiani. Non uno spettacolo: perché esiste una ricerca del risultato a ogni costo. In questo quadro confuso s'è fatto strada un pensiero che disconosce il merito, in un Paese in cui furbizia e conoscenze valgono di più».
Com'è nata la supremazia del risultato a ogni costo?
«Spesso all'estero i nostri emigranti ci chiedevano di vincere, per sentirsi almeno un giorno uguali agli altri. Perciò in tanti, non tutti, hanno cercato scorciatoie. Ora vedo segnali che mi fanno sperare. L'Empoli gioca contro avversarie che hanno un capitale giocatori da 300 milioni, un costo del lavoro di 120, eppure va in campo per essere protagonista».
Sarri primo dopo tanta gavetta. Lei lo elogiava già un anno fa. Cosa vedeva in lui?
«Da responsabile delle nazionali giovanili guardavo spesso l'Empoli, così mandai ai suoi allenamenti i nostri tecnici: Mangia, Di Biagio, Evani, Zoratto. Era il periodo in cui ai ragazzi inculcavo il principio secondo cui una vittoria senza merito non è una vittoria. Mi dicevo: forse non usciranno dei campioni, magari faremo uomini migliori».
Cos'è riuscito a Sarri che a Benítez è sfuggito?
«Benítez è un buon allenatore e una persona seria. Viene da una cultura in cui sono più bravi ad attaccare. Quando escono dal pressing, in Spagna trovano praterie. Sarri viene da una storia italiana, la sua evoluzione lo ha portato a costruire un gioco d'attacco con un equilibrio. Il Napoli difendeva per reparto, oggi difende di squadra. Cerca di meno l'uno contro uno, questo dà sicurezza ai giocatori. Sarri muove gli undici, sempre tutti in posizione attiva, con o senza palla. Un atteggiamento che genera tranquillità e fantasia; altre squadre sono abituate ad avere la metà dei giocatori che non partecipa al gioco. Come si può crescere lasciando il pallone agli altri? Non parlo di possesso stucchevole, ma di possesso per far danni».
Quando a Valdano chiedono se il bel gioco sia necessario, cita Borges: "A cosa serve l'alba?".
«Una partita a biglie si vince solo giocando bene. Perché nel calcio non dovrebbe essere così? Bastano poche idee ma chiare, se le idee sono molte meglio ancora. Se a una frase in un testo manca il soggetto, il senso si perde. Ecco, il soggetto del calcio è lo spettacolo».
Il Milan aveva nella propria storia l'esperienza con lei. Perché non ha creduto in Sarri?
«Speravo che Sarri andasse al Milan. Berlusconi avrebbe dimostrato di nuovo la sua competenza. Prendere uno sconosciuto come me fu da matti o da geni. Ebbi al mio fianco una società forte. Un giorno Mark Hughes mi chiese: come ha fatto il Milan a sbucare dall'Italia, dove se un campo di calcio fosse di due chilometri, comunque occupereste gli ultimi 20 metri? A Milano vedevo tutti camminare in fretta, pensai che sarebbe stato facile imporre il pressing. Non credo che De Laurentiis conoscesse a fondo il calcio di Sarri, ma prendendolo dopo Benítez si è messo un giorno avanti agli altri».
Garcia esonerato, Mihajlovic che non se la passa bene: esiste un disagio dei tecnici stranieri in Italia?
«Sì, anche in passato. Siamo una realtà particolare. Ci sono club diretti da persone di successo in altri ambiti, convinte di saperne pure di calcio. Nella tipologia classica, l'allenatore italiano non vive il calcio come sport di squadra; tende a fermare gli avversari. Ora invece abbiamo molte squadre non solo intonate, ma che saprebbero suonare più generi, con interpreti non straordinari, ma funzionali».
Di Francesco le piace?
«Viene dalla scuola delle idee. Il Sassuolo fa un ottimo possesso palla. Può ancora migliorare nella difesa preventiva, nel pressing, nello scalare. Ma lui è uno dei più bravi in assoluto».
Squadre italiane che divertivano in passato?
«Il Bologna di Bernardini, il Napoli di Vinicio, le squadre di Zeman, quelle di Fabbri, sia Edmondo sia Gibì, che aveva un'idea di football positivo, d'avventura».
Perché allora Zeman non ha mai vinto uno scudetto?
«Contano le idee, la capacità didattica, l'ambiente. Un'altra delle componenti è l'investimento. In Italia si è pensato a lungo che contasse più del resto, ma non è così, lo dimostra il Real Madrid. Ci sono rose più confuse della torre di Babele. Il calcio è come la musica. Muti è un gran direttore d'orchestra, ma se gli dai due rockettari, due chitarristi country, due esecutori di sinfonica e due suonatori di liscio, come farà a metterli insieme?».
E Spalletti come farà a Roma?
«Non è un mago. Si deve cautelare. Avrà bisogno di calciatori adatti alla sua idea di gioco. Esiste un solo allenatore straordinario nel subentrare e nel lasciare tracce: Ancelotti. Gli dai 11 portieri e lui fa una squadra. Molte delle sue energie vanno disperse per sopravvivere. Quando inciderà nella scelta della rosa, il suo calcio entrerà nella storia».
Sacchi, in definitiva: lei sente di essere stato un modello o un'eccezione?
«Una volta nel vedere che la Danimarca ci metteva sotto a livello giovanile, Costacurta mi disse: ci hanno copiato in tutto il mondo, eccetto che in Italia».

(la Repubblica, 15 gennaio 2016)

Nessun commento: