mercoledì 20 gennaio 2016

Paloschi e il gol no-look

Quando arriva il pallone sulla testa di Paloschi, sono passati tre secondi. Tre secondi dall'ultimo sguardo, gettato di sfuggita alle proprie spalle per capire com'è la situazione là dietro. Tanti, pochi, nello sport non si sa. In tre secondi i meccanici ai box cambiano le ruote a una Ferrari e un fucile spara frantumando un piattello; tre secondi nel basket possono durare anche tre minuti, come accadde nella finale olimpica fra russi e americani a Monaco ‘72: time-out, rimessa, tira tu, tiro io, ripetizione, proteste. Paloschi ha la porta dietro di sé, e poiché quello che una volta si faceva in tre secondi oggi nel calcio si deve fare in uno, in un secondo Paloschi lo fa. Scarta l'idea dello stop poiché come direbbe Bruno Pizzul «ha il problema di girarsi». Non si gira, allora. Non stoppa. Non guarda. Paloschi tira. Colpo di testa all'indietro, a parabola, eppure non è solo istinto.
Il gol no-look non è materia fantasy: per farlo devi avere la cartina del tuo mondo stampata nella testa. Non comanda l'indole. È calcolo, estimo, topografia. Da Magic Johnson in avanti, la giocata no-look porta con sé il marchio dell'estro. Guardi in una direzione e mandi la palla dall'altra. Sandro Gamba, ex c.t. della Nazionale italiana di basket, la mette fra le cinque cose che lo lasciano senza fiato. Si sono esercitati in tanti, e sul parquet più che in ogni altro posto pare finanche un gesto naturale. Ilie Nastase trasferì l'idea sulla terra rossa del tennis, Yannick Noah la rese universale, Roger Federer ogni tanto la ripropone. Un pallonetto ti scavalca, ne insegui la traiettoria fino a fondo campo e da lì giochi il colpo sotto le gambe, spalle alla rete, un po' perché è la cosa più immediata da fare, un po' perché ti piace l'applauso della gente. Ma un campo di basket e uno di tennis sono lunghi il primo ventotto metri e l'altro quasi ventiquattro. Il prato di uno stadio è grande il quadruplo, per questo il gol no-look è un'eccezione. Non per Firmino, l'attaccante brasiliano che ne ha segnati addirittura due nell'ultimo anno, in Bundesliga contro il Werder Brema quando giocava per l'Hoffenheim e con la Nazionale contro il Cile.
Sapere sempre dove sei, questo è il punto. Alberto Paloschi appartiene a quella genia di attaccanti che conosce alla perfezione il proprio habitat. I rapaci. Morfologia Pippo Inzaghi, del quale infatti viene indicato come erede sin dal giorno in cui Ancelotti lo fa esordire ragazzino in serie A con la maglia del Milan. Precoce in tutto, dopo diciotto secondi tocca il suo primo pallone da professionista e lo mette in porta. I Paloschi, e prima di lui gli Inzaghi, e prima ancora i Paolo Rossi, sanno farsi trovare dove conviene, un attimo prima che lo capiscano tutti quanti gli altri. Hanno misurato con i loro passi domenica dopo domenica il luogo che vivono e che non lasciano mai. Sanno benissimo che poco più in là esiste un altro condominio, un altro isolato; lo sanno perché ne hanno sentito parlare, anche se non ci sono stati mai. Non gli serve. Si fanno bastare l'area di rigore, la loro sete di conoscenza non si spinge oltre la mappa delle terre note. I Paloschi non si perderanno mai. È questa la loro forza e insieme è il loro limite. Così non scopriranno mai l'America, ma sapremo sempre dove trovarli con un pallone buttato in mezzo alla cieca.

(la Repubblica, 19 gennaio 2016)

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