mercoledì 17 febbraio 2016

Le squadre che non vincono mai


Si può trasformare in sette giorni una squadra che non vince mai? E' questa la sfida di Gianluca Vialli e Lorenzo Amoruso, in giro per l'Italia con l'obiettivo di risollevare dal fondo della classifica le formazioni dei campionati dilettanti col peggior rendimento. Anche il calcio ha il suo docu-reality. Intorno a questa idea è nato "Squadre da incubo", format originale prodotto da FremantleMedia con lo stesso Vialli fra gli autori. Il programma sarà trasmesso da domani su Mtv8 (canale 8 del digitale terrestre) in prima serata: sei puntate da 50 minuti per la regia di Alessandro Tresa. Si inizia da Sezze Scalo (Latina), poi Giffoni Valle Piano, Martirano Lombardo, Carunchio, Buttrio, Moneglia. Quella che segue è una chiacchierata fatta con Lorenzo Amoruso sulla sua carriera e sul significato del codice del calcio.  


Una sera s'azzuffano due allenatori, «finocchio» dice uno all'altro, in campo, sotto lo sguardo della tv. Un'altra volta va la telecamera a frugare sulle labbra di un calciatore fuori di sé, «zingaro» si legge allora, un insulto che qualche anno fa nessuno avrebbe colto. Lo aveva capito prima di tutti George Orwell: «Il calcio alimenta brutali passioni». Aveva giocato al college, maturando l'idea che lo sport fosse un incessante motivo di ostilità, giacché «conduce a orge di astio». Immaginò su di noi lo sguardo del Grande Fratello, ma non che quell'occhio finisse per sorvegliare le piccinerie del mondo del pallone, mandando in crisi un sistema fra accuse settimanali di omofobia e razzismo.«Quando si gioca una partita, agonismo e adrenalina fanno brutti scherzi. Per gli allenatori è finanche peggio. Sono belve in gabbia, loro: non possono neppure sfogarsi correndo o dando un calcio a un pallone». Lorenzo Amoruso ha quarantacinque anni, venti passati sul campo, giocava in difesa e si faceva rispettare. Conosce il codice secondo cui «le cose del campo, in campo devono restare»; quel codice che condanna quanti in pubblico vanno a riferire il contenuto brutale delle viscere. Omertà? «Quando c'è una telecamera puntata su di te, puoi farci poco. Non è bello dire che tutto dovrebbe restare protetto, sembra un atteggiamento mafioso, meglio sarebbe sostenere che uno scontro fra uomini di sport dovrebbe durare un attimo e finire lì».

Amoruso le telecamere le conosce. Non solo perché dal 18 febbraio sarà su Mtv8 protagonista con Gianluca Vialli del docu-reality Squadre da incubo, programma in cui gira l'Italia per allenare formazioni di dilettanti allo sbando, provando a ribaltarne il rendimento con sette giorni d'allenamento professionale. Lui stesso è finito dentro i polveroni che il calcio italiano ha rivissuto in queste settimane. Coppa Uefa, 1999, un martedì di dicembre. La tv che sta trasmettendo la partita fra i suoi Rangers Glasgow e i tedeschi del Borussia Dortmund coglie un paio di paroline rivolte al nigeriano Ikpeba che lo inchiodano. «Andò così. Io picchiavo lui, lui picchiava me. A un certo punto mi chiamò "Italian bastard", io gli risposi qualcosa che tuttora non ricordo. Davvero. La Federazione chiamò un'esperta in lettura labiale, una signora scozzese, per sostenere le accuse contro di me. "Black bastard": ecco cosa avevo detto. Ma ogni volta che ci ripenso, mi torna strano: io quando m'incazzo sparo parolacce in barese. Il punto vero è che davanti alle telecamere si crea una realtà fasulla che finisce in un modo solo: da una parte c'è un angelo e dall'altra c'è uno stronzo. Mi scusai, anche se l'arbitro non aveva sentito e il mio avversario non mi aveva denunciato. In squadra avevo compagni di colore, a Bari uno dei miei migliori amici era il colombiano Guerrero. Ho vissuto senza badare al colore della pelle di chi mi stava accanto, delle mie compagne, né alla loro religione, forse perché vengo dalla strada, eppure passai per razzista. È la foga del campo. Chi non ha giocato non può immaginarlo».

Lorenzo Amoruso viene da una storia di pacifica convivenza su un terreno minato. Nel 1997, con cinque milioni di sterline, i Rangers lo comprano dalla Fiorentina. Lui arriva in Scozia e si mette nei guai. Si infortuna subito e al rientro viene squalificato per quattro partite dopo uno sputo a un avversario. Ma la sua maniera di stare in campo è di quelle che non smetteranno mai di piacere. Se c'è da dare, lui dà. Se c'è da spendersi, lui si spende. L'anno dopo lo fanno capitano. Apriti cielo. I Rangers sono la squadra della parte protestante di Glasgow e Lorenzo no, Lorenzo è cattolico. Il primo capitano cattolico nella storia. Qualche giornale attacca; la sponda opposta del calcio cittadino, i Celtic, si fa sentire. Gli danno del traditore. L'Old Firm, così si chiama il derby di Glasgow, è da sempre il più crudo d'Europa. Indipendentismo contro unionismo, discriminazioni e violenze settarie, nella sua storia ci sono anche dei morti. «È stata una lezione, per me. Io avevo i miei valori, quelli che mi hanno insegnato i miei genitori. Non era in discussione che li rinnegassi. Sono credente, dentro di me c'è la religione, meno la Chiesa. Ma prego e non smisi certo di farlo ai Rangers. Cominciai a fare il segno della croce nel tunnel degli spogliatoi anziché sul campo prima della palla al centro, non per rinunciare a un pezzo di me, ma per non ferire i compagni e chi viveva al mio fianco. Il crocefisso dal collo non l'ho tolto mai, lo tenevo infilato sotto la maglia della salute. Da capitano avevo delle responsabilità. I Rangers sono una fede. Quando il club è fallito ed è stato retrocesso in serie D, ho visto persone andare in depressione. Andai a parlare di differenze e di convivenza pacifica ai bambini nelle scuole. Così, sono stato giudicato sempre e solo per ciò che facevo o non facevo in campo. Se non fossi diventato un calciatore, credo che sarei diventato un maestro elementare. Era il mio piano B. Ho il diploma, ho fatto il tirocinio, mi sono messo a studiare psicologia e pedagogia. Mi incuriosisce il pensiero dei bambini, il confine tra ingenuità e malizia, mi affascina la genesi delle bugie nella loro testa».

La Scozia, un grande amore. «Avrei voluto giocare per la loro Nazionale. Me lo proposero, accettai. Amo la loro cultura, il loro spirito, la loro maniera di pensare. Gente alla mano che i sudisti, i londinesi, chiamano contadini. Non se ne fece più niente: scoprimmo che per due partite precedenti nelle giovanili dell'Italia, non avrei potuto cambiare passaporto». Oggi i regolamenti sono cambiati, oggi un Amoruso naturalizzato potrebbe essere il Braveheart del pallone di Scozia. «La Nazionale italiana invece mi ha sempre ignorato. Ai miei tempi, quando giocavi all'estero, sparivi dai radar. In maglia azzurra non ce ne sono stati tanti di difensori più forti di me». Figuriamoci oggi. «Avevamo una scuola ed è andata perduta. Sacchi è stato un genio ma ha fatto tanto male al calcio italiano. Tanti hanno provato a imitarlo, ma lo hanno frainteso. Nel passare alla difesa a zona, si è smesso di insegnare ai ragazzini come si marca a uomo. Si bada troppo alla palla e poco all'avversario. Pur di lasciare un attaccante in fuorigioco, gli vengono concessi metri e metri. E poi s'è cominciato a risparmiare negli investimenti sui settori giovanili. I ragazzini oggi mollano alle prime difficoltà. Hanno più cose a cui dedicarsi rispetto a noi. Noi avevamo il pallone che ci rendeva sempre felici. Se mancavano i soldi per comprarlo, ne facevamo uno con i giornali e il nastro isolante. Magari non rimbalzava però ci potevi lo stesso correre dietro. Le scuole calcio hanno sostituito le partite in cortile, ma fatela una passeggiata in queste scuole calcio: ci troverete genitori che sperano di diventare ricchi grazie al figlio calciatore».

Palese, otto chilometri dal centro di Bari. Il primo pallone di Amoruso. «Il quartiere offriva poco, all'epoca eravamo in tutto cinque o seimila persone, oggi è un altro posto. Palese per me era il mare, la spensieratezza, la libertà. Ore e ore passate in campagna, a costruirsi case sugli alberi, anche in mezzo a gente molto diversa da me, ragazzi prepotenti, figli di famiglie malfamate. La strada è un'università. Ho imparato le regole, a stare lontano dalle scorciatoie, a farmi rispettare anche con le cattive, e in questo il fisico mi aiutava. Il mio povero papà (scomparso pochi giorni fa) giocava fra i dilettanti, la passione me l'ha trasmessa lui. Era bassino, dovette lasciare presto, il calcio ai suoi livelli non riempiva la pancia. Ha fatto l'arbitro, l'allenatore, soprattutto mi ha messo sulla strada giusta senza assillarmi, facendomi sbagliare da solo».

Quando nelle prossime settimane la tv mostrerà il personaggio Amoruso, forse al mondo del calcio italiano tornerà la voglia di andare a riscoprire la persona. Lui dice che resisterà. «Non lavorerò più nel calcio vero. Ho fatto per due anni l'osservatore per la Fiorentina, credo di aver lavorato bene, ma ho scoperto di avere un difetto: parlo, e chi parla dà fastidio. Il calcio italiano avrebbe bisogno di una ventata di fresco. Forse per me è tardi. Mi riconosco poco nella forma presa dal mio mondo, questo calcio crea dei mostri. Su mille ragazzi per bene ce ne sono cento stupidi, ma in prima pagina ci vanno loro, gli stupidi, diventano degli esempi. Io non ero un fenomeno, ma sono arrivato a certi livelli perché non mi sono tirato indietro mai davanti alla fatica. C'è sempre qualcuno più bravo di te, questo i ragazzi adesso non lo capiscono, ce ne sono alcuni che a venticinque anni sembrano già degli ex. In prima superiore fui bocciato, mio padre non mi passò un soldo per tutta l'estate. Dovetti andare a lavorare, prima nella merceria di un amico, a smistare bottoni e cerniere nei cassetti, poi in salumeria a tagliare il prosciutto. Quell'estate ho capito il valore di mille lire. Sono diventato col tempo una persona da riviera, nel senso che posso permettermi una bella vacanza, un bel vestito, il ristorante migliore, ma per natura rimango uno di bosco: a casa ho il giardiniere, ma l'erba me la taglio da solo. Ho fatto il calciatore, certo, ma sono una persona normale».

(dal Venerdì di Repubblica del 5 febbraio 2016)

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