lunedì 7 marzo 2016

Luciana Littizzetto


Questa donna che fa colazione alle nove del mattino nella camera di un hotel romano in via Veneto non è "la Littizzetto": non è la maschera del Walter, della Jolanda, di Ruini-Eminence, non è la guastatrice che invita Belén a "darla via in beneficenza". Il vassoio è adagiato su un pouf in un angolo. «Un conto è far satira da Fazio, aggredire, essere caustica con i potenti; un altro è confrontarsi con le persone comuni». Ballerini rock di settant'anni, un padre e un figlio giocolieri, i due ragazzini che cercano di battere il record di lunghezza di un bacio in tv, quelli che tagliano le zucchine con un drone, la band musicale che suona con le parti intime. È il pezzo di Paese che cerca un'occasione, passato sotto i suoi occhi per le audizioni di (programma prodotto da FremantleMedia che dal 16 marzo va in prima serata per dieci mercoledì su Tv8). Giudici: Claudio Bisio, Frank Matano, Nina Zilli e lei, la donna italiana sulle cui spalle strette noi del pubblico abbiamo gettato come una condanna il dovere di dissacrare ogni cosa.


E invece eccola qui. Un letto a due piazze sfatto per metà, un piumone bianco, l'ultimo libro di Antonio Pascale sul cuscino: tra le pagine una matita gialla che lo taglia in due. I segnalibri sono armi letali. Non sai mai da cosa ti stanno separando. Quest'Italia che un tempo andava a prendersi fischi e ululati alla Corrida adesso intenerisce Nostra Signora dello sberleffo. «Credo di aver capito il motivo. Da giudice di un talent io non mi mostro e non fingo: io sono. Una specie di liberazione. Quando sei su un palco, non sei sempre te stesso. Sei un po' come al servizio del tuo personaggio. Fare il giudice non sapevo cosa fosse. In genere mi trovo più spesso nei panni dell'imputata, è una dimensione che mi appartiene di più. Voglio dire: ti capita pure di imbatterti nei balenghi, ma finanche loro meritano un momento di attenzione. Sento molto la responsabilità di non ferire nessuno in questo mondo di energia e desiderio, mandato avanti da un motore positivo: gente che ci crede, che ha studiato, s'è esercitata. Mi piace poter mettere il mio percorso e la mia esperienza al servizio di qualcuno che chiede di avere un'opportunità» .

Va nella stessa direzione il senso del progetto che da qualche mese Luciana Littizzetto manda avanti sul web con il suo blog. L'ha chiamato cicapui, la parola piemontese che indica qualcuno o qualcosa di appiccicoso, «come il fiore della bardana, non hai bisogno di legarlo o di stringerlo: ti avvicini e si attacca a te» . È la sua ultima impresa. Uno spazio aperto, un luogo di incontro fra le sue passioni e quelle di chi siede da quest'altra parte. «Mi spediscono soggetti per film, idee per romanzi, bozze di spettacoli. Mi scrivono artigiani che si inventano cose. Io leggo tutto, scelgo, decido cosa tenere in vetrina, cosa proporre. Mi piace l'idea di un posto in cui le cose belle per uno possano diventare bellissime per tanti». Se una frase così la dicesse Fazio, lei se lo sbranerebbe. «Macché, lui è un cinico, ma proprio cinico. Meno male, sennò… Sto lavorando sul linguaggio della rete, sulle sue potenzialità. Quasi sempre ne parliamo in termini negativi. Io stessa ogni tanto finisco dentro un polverone di reazioni per ciò che dico in televisione. Ma in rete esiste un blocco sociale di cui non avevo colto per intero la potenza positiva, costruttrice. La rete può essere una fogna a cielo aperto o un campo fertile dove metti a far crescere delle cose, ma anche minime sensazioni: un incontro inaspettato, la sensazione degli alluci che affondano nella sabbia, un libro che hai scoperto per caso. Non sto sui social per mostrare me stessa, ma per raccontare che esistono ipotesi e possibilità. Come al Monopoli». Dare una chance. «A me, a suo tempo, non ne hanno regalate. Torino è una città che se ne sta un po' per conto suo. Esisteva il gruppo dei romani, il gruppo dei fiorentini, e così via. Io non facevo parte di nulla. Quando ho iniziato, a Torino c'era Piero Chiambretti, c'era Bruno Gambarotta, c'era Arturo Brachetti: ma se oggi volessimo rivederci e celebrarci, al massimo potremmo andare a farci una pizza fuori» .
Questo segmento di Littizzetto esisteva già. Ma se ne stava al chiuso. Luciana coltivava il suo senso per la premura in privato, mentre noi eravamo concentrati sul suo tratto più esposto. «Credo di aver sempre avuto nella mia vita questo spirito di accoglienza». Nove anni fa, frequentando la comunità "La difesa del fanciullo", matura l'idea di una maternità. Per la società ha un compagno, per le leggi dello Stato è single. L'affido è la sola via possibile. In casa arrivano Vanessa e Giordan, sorella e fratello la cui patria potestà appartiene al Comune di Torino. «E poi son cresciuti e sono diventati ragazzi spiritosi. Lui compie diciannove anni a maggio, è all'ultima classe di scuole superiori, ha fatto una volta la comparsa in una fiction. Lei ne ha ventuno, è all'Accademia di belle arti, è più timida ma forte, determinata. Li portavo con me per musei, alle mostre, e mi odiavano. Andare al cinema era più facile, eppure oggi alle mostre ci vanno da soli. Forse è vero che se respiri un certo clima in casa finisci per assorbirlo. Ma ogni famiglia fa come gli pare, soprattutto fa come può». La sua mandò la piccola Luciana in collegio dalle suore. «Solo che ero spesso malata, mi si gonfiavano le tonsille e così ero costretta a starmene a casa, in compagnia della radio accesa. La radio, sì, non la televisione. Al mattino davano questi sceneggiati meravigliosi, oppure le fiabe dei Grimm, e allora ho cominciato a sognare che sarei diventata un'attrice della radio anch'io, consapevole già da bambina che era meglio se non avessi fatto vedere la faccia». La libertà, diceva Hugo, comincia dall'ironia. «I miei erano lattai, gente normale. L'idea di un percorso artistico, per loro, era legata alla danza. Così un anno sono andata a ballare. Ma avevo un nonno che suonava la chitarra, mio padre la fisarmonica e uno zio il clarinetto nella banda. In quinta elementare ho cominciato a prendere lezioni di piano e crescendo mi sono ritrovata al Conservatorio. Eppure sapevo che non sarebbe stata quella la mia strada, non mi vedevo concertista con queste mani da talpa. Il diploma mi ha però consentito di entrare a insegnare musica nelle scuole ». La professoressa Littizzetto. «Con i primi stipendi da supplente mi sono pagata un corso di dizione e di doppiaggio. Ma già a scuola avevo capito che sapevo far ridere. Prima con le imitazioni delle suore, poi quando mi invitavano a raccontare una storia, e io attaccavo con quelle che mi piacevano da morire, quelle sentite alla radio, ma rilette a modo mio».
La comicità è un mare in cui si può nuotare con più stili. «A me hanno sempre fatto molto ridere Stanlio e Ollio. Mi piace la comicità che parte da una fragilità e si trasforma in tenerezza. Lo so che parrà strano, ma i comici cinici non mi hanno mai divertito, con l'eccezione di Raimondo Vianello, specialmente negli sketch con la Mondaini. La comicità si allena leggendo, e non dico solo testi umoristici; si allena facendo grandi figuracce nella vita di ogni giorno, ma disponendosi all'ascolto, mettendosi in gioco, aprendo gli occhi sui mille modi in cui le altre persone leggono la vita, imparando dalla maniera in cui hanno risolto la loro, guardando da quale parte sono andati a cercarsi una porzione di verità. L'altro giorno a Torino ero in strada per pagare una bolletta, ma l'ufficio postale era chiuso. Con me lì fuori c'era una signora anziana un po' spiazzata dall'imprevisto. Cercava un'alternativa, s'informava, finché non le hanno detto che la bolletta a quel punto andava pagata via mail. Allora mi ferma e fa: scusi, ma dove si trova di preciso questa Via Meil? La realtà ti regala spunti che nessun autore potrebbe forse inventare» . Rimane da chiedersi cos'altro possa fare "la Littizzetto" per spiazzarci. «Mi piacerebbe poter recuperare la mia competenza musicale e fare la regia di un'opera lirica, alla Franca Valeri. Oppure girare un film in cui non mi sia chiesto per forza di far ridere» . Essere, insomma.

Repubblica, 6 marzo 2016

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