martedì 31 maggio 2016

Il paradosso Zidane

Zidane allenatore non è mai esistito. Zidane allenatore era un'idea di cui sorridere, se non addirittura sospettare, maliziosi, come hanno fatto in Spagna, dove certe volte pareva la geniale idea venuta a un padre per aiutare la scalata alla gloria di suo figlio calciatore.
Zidane allenatore sembrava un controsenso, primo perché i grandissimi del campo si trascinano sempre un certo imbarazzo in panchina - con l'eccezione di Cruijff - e secondo perché al Castilla, la succursale del Real, Zidane aveva iniziato la sua seconda carriera con cinque sconfitte nelle prime sei partite. Solo che il calcio conosce mille maniere per burlarsi di noi. Compreso mettere Zidane sulla panchina della squadra più ricca del mondo, e fare di lui il primo allenatore francese in grado di vincere la Coppa dei Campioni. In realtà i francesi si attribuiscono pure il passaporto di Helenio Herrera, di nascita argentino. Ma da oggi probabilmente vorranno dimenticarsene, da oggi vorranno essere certi di aver visto nascere una Storia.
Casemiro lo solleva. Ronaldo gli mette una mano sulla testa e gli parla all'orecchio. Per arrivare fin qui e far succedere questo, mentre Mourinho firma per il Manchester, Ancelotti sposa la Germania e Benítez abbraccia la serie B di Newcastle, Zidane ha dovuto attraversare due ali di diffidenza. Il "falso lento in campo", come da definizione di Jorge Valdano, aveva in se stesso il proprio limite, nella sua grandezza intanto e poi nella sua ombrosità. Non c'è nessuno dei tuoi calciatori che possa davvero soddisfarti, mai veramente fino in fondo, fino all'angolo nascosto del cuore, se sei stato Zidane e hai saputo fare ogni cosa meglio di loro.
L'altra grande incognita era la sua scarsa capacità di stare davanti alla gente, sorridere, far finta che tutto sia a posto e replicare, placido. La chiamano comunicazione. Zidane ha imparato a farlo. Veniva descritto come un uomo incapace di strigliare, di alzare la voce e dare indicazioni sopra le righe. Ora a Madrid dicono che l'arte sia stata appresa nell'intervallo di certe partite, quando il Real era apparso - anche a lui - come il famoso "album di figurine" messo insieme da Florentino Perez senza darsi troppa pena di badare all'equilibrio.
La fronda di Natale dei veterani contro Benìtez ha lanciato Zidane in trincea, non proprio la dimensione a lui più adatta. Non alla sua luminosità, lui che è l'ultimo dei mistici in panchina. Come Mou, come Klopp, come in fondo lo stesso Simeone. Se Benìtez ha cercato di far diventare una squadra il Real chiedendo ai suoi calciatori di giocare spesso contro la loro natura, Zidane ha seguito la strada opposta. Ha lasciato ai suoi solisti la libertà di sentirsi tali e di professare questo loro abuso. Ha protetto l'anarchia con la sua immagine. Quella aveva, quella ha sfruttato. Ci ha messo del suo anche negli errori, come nelle sostituzioni di ieri sera, che forse nessun partecipante al primo anno di corso a Coverciano avrebbe sottoscritto. E' diventato così il 7° della storia a vincere la Coppa dei Campioni sia da calciatore sia da allenatore. Come prima di lui Muñoz, Ancelotti, Guardiola, come Cruijff, Rijkaard e Trapattoni. Ma è l'unico fra questi a essere stato anche campione del mondo. Qualcosa vorrà dire.

(su Repubblica, il 29 maggio 2016)

Nessun commento: