sabato 14 maggio 2016

Sulle strade di Bartali, Giusto tra le nazioni


"In una settimana siamo scesi, scenderemo ancora e risaliremo. Ma si può già tentare un bilancio. (...). È un giro ideale. Quello che la gente aspetta per ore ai bordi della strada e aspetta un passaggio che è già avvenimento e spettacolo, cosa importa se si vede meglio stando a casa? Negli ultimi giorni ho visto molti cartelli che dicevano "dai Gimondi che ce la fai" o "forza Felice". Gimondi ha smesso da anni, ma anche questo non importa: continua a pedalare nel Giro dei sogni, il Giro che manda in onda l'Italia del valzer dei caffè, come cantava De Gregori, ma anche delle canottiere e dei 54 per 13, l'Italia di Lino Banfi e del circolo di rinascita giovanile Bruce Lee (verso Gragnano), dei circhi poveri, con un leone solo e anche malandato, delle edicole zeppe di riviste porno, delle scolaresche allineate che domani si beccheranno il tema: "Il Giro d'Italia è passato dal mio paese: sensazioni e colori" [1]."Si va in Umbria. Che cosa conosce di questa regione bella? «I cioccolatini Perugina»" [2] rispose Vinokourov alla Gazzetta. C'è molto di più. "Se da noi c'è una città della pace, lo sanno tutti, è Assisi, la patria di Francesco" [3]Pensando al calcio viene in mente il "derby di Promozione tra Real Virtus e Subasio. Alla fine, scazzottata generale, coi giocatori che si tolgono la maglia così per l'arbitro è più difficile identificarli. Scatta quindi una multa collettiva, più pesante però per la Real Virtus (90 euro, contro 70)"[3]Pensando alle bici viene in mente Bartali durante la guerra. "In quel periodo la specializzazione di Bartali era la staffetta in bici: portava falsi documenti che evitavano la deportazione agli ebrei, in accordo col Vaticano. Prima o poi, ritroveremo Ginettaccio nell'elenco dei Giusti fra le Nazioni. C'è un film del 1985 («The Assisi Underground») su quelle vicende. E c'è ancora una targa, piccola, con scritto Shalom vicino all'ingresso della casa di Bartali. «Certe cose le si fa per farle, non per dirle» s'imbronciava lui quando qualcuno gli faceva notare che di quel suo impegno avrebbe potuto parlare di più. Adesso si può. L'ha fatto l'Unità, agli inizi d'aprile. E lo faccio brevemente in questa sede: Bartali ha rischiato la pelle per salvare vite, non solo per vincere corse" [4].
"La prima luce sull'altro Bartali, non quello agonistico ma quello umanitario, non quello brontolone ma quello silenzioso, non quello fuoriclasse ma quello fuorilegge, è stata accesa da Angelina Magnotta, 65 anni, toscana di Pontremoli, insegnante di italiano e latino. «Nel 2005 andai a Gerusalemme come preside degli Uffici scolastici regionali - racconta - responsabile del progetto "I giovani ricordano la Shoah". Furono giornate di incontri e studi, conoscenze e approfondimenti. Alla fine, il saluto si trasformò in una missione: "Per 27 mila ebrei italiani salvati, abbiamo solo 300 italiani salvatori. I conti non tornano. Cercatene altri". Tornata a casa, mi misi al lavoro. E cominciai da Bartali. La sua attività clandestina era già stata illustrata in "Assisi Underground", un libro del 1978 e poi film del 1985, di Alexander Ramati, ma da allora mai più esplorata e documentata». Oltre ai famigliari (i figli Luigi e Andrea, e la moglie Adriana), la Magnotta ha incontrato Agostino Davitti, che le ha narrato la storia del padre Antonio, guardia costiera a Portoferraio, sull'Isola d'Elba. «Quando venne arrestato, Antonio Davitti aveva in tasca solo una foto autografata di Bartali, il suo eroe, quella in cui Gino vinceva in volata la Reggello-Secchieta. Il carceriere di Davitti, responsabile dello smistamento dei prigionieri nel lager di Dachau, era un grande appassionato di ciclismo. Si arrivò a un incredibile baratto: se Davitti gli avesse dato la foto di Bartali, in cambio il carceriere gli avrebbe permesso di scegliere i compagni con cui sarebbe stato trasferito in una fattoria a lavorare "fuori dal campo". O Bartali o la morte. Davitti diede la foto di Bartali, il soldato tedesco mantenne la parola data, dopo due giorni prese i 15 uomini indicati più altri cinque, i primi che arrivarono, e li mandò alla fattoria. Là, nutrendosi con latte e patate, Davitti e gli altri riuscirono a salvarsi e a tornare in Italia». Gambe e cuore Agostino Davitti aveva registrato il racconto dal padre Antonio e inviato il nastro a Bartali, che però non ne aveva parlato con nessuno. C'era da aspettarselo. Per Gino, «il bene va fatto e non detto». La ricerca della Magnotta ha avviato le pratiche per il riconoscimento storico. Ma per l'ingresso ufficiale di Bartali nello Yad Vashem erano indispensabili testimonianze dirette. Da lì l'impegno di «Pagine ebraiche» e quello della famiglia. Intorno, «Mille diavoli in corpo» (Giunti) di Paolo Alberati, fino alla biografia «La strada del coraggio» (editore 66th and 2nd) dei canadesi Aili e Andres McConnon, attraverso la testimonianza decisiva di Giorgio Goldenberg raccolta nel dicembre 2010 proprio da «Pagine ebraiche» con Adam Smulevich. Angelina Magnotta ha continuato la sua opera di divulgazione con un libro («Gino Bartali e la Shoah», Edizioni dell'Assemblea, scaricabile gratuitamente dal sito http://www.consiglio.regione.toscana.it/upload/eda/pubblicazioni/pub3982.pdf) e la prosegue con interventi nelle scuole. Il 2014 si celebrano i 100 anni dalla nascita del campione. «Ho imparato ad amare Gino perché era un grande, non solo con le gambe, ma anche con il cuore» [5].
"«L'ho visto una sola volta, ma me lo ricordo come se fosse qui adesso. Gino Bartali stava alla ruota, una porta girevole, che lo nascondeva quasi completamente alla vista. In silenzio. E consegnava una busta». Suor Eleonora Bifarini ha 96 anni. Nata a Ripa, un paesino a una decina di km da Perugia, il 26 aprile 1916. Origini umili, infanzia povera. Nel Monastero di San Quirico, ad Assisi, entrò a 10 anni: «Uno zio frate a Santa Maria degli Angeli, e missionario in America, diceva che la nostra famiglia aveva bisogno di un miracolo al giorno per tirare avanti, e che noi creature non avevamo possibilità, e che l'unica soluzione era che andassimo dalle monache». Cinque anni dopo decise che sarebbe rimasta lì. E 10 anni più tardi divenne Suor Eleonora, sorella clarissa di clausura, e si dedicò per sempre a Dio. «Bartali - racconta Suor Eleonora - veniva, consegnava una busta, mangiava, poi andava nella Chiesa di San Francesco, pregava, tornava qui, ritirava un'altra busta e ripartiva. Era un messaggero, a suo modo un missionario: portava fotografie vere, ritirava documenti falsi. Li metteva nel telaio della bicicletta, forse nel manubrio, forse nel reggisella, poi con la scusa di allenarsi, li trasportava a Firenze. E così garantiva una nuova identità a uomini e donne ebrei, salvandoli dalla deportazione». Tra l'8 settembre 1943 e il 17 giugno 1944, Assisi era diventata porto, rifugio, asilo. I monasteri - le collettine francesi, le stimmatine, le cappuccine tedesche, le benedettine di Sant'Apollinare - offrivano le foresterie per esiliati, perseguitati, sbandati, evasi, fuggitivi. «Così anche nel nostro Monastero - ricorda Suor Eleonora -. Madre Giuseppina Biviglia, la badessa, cominciò a ospitare tanti disgraziati, che venivano e andavano». «Le persone che si rifugiavano da noi - scrisse Madre Giuseppina nel libro delle memorie del Monastero - furono, per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone, e anche religiose». Cattolici ed ebrei, fascisti durante il Governo Badoglio, socialisti durante la Repubblica sociale. Madre Giuseppina concludeva: «Era proprio un'arca di Noè». «Bartali - prosegue Suor Eleonora - faceva parte di un'organizzazione che aveva, come coordinatore, padre Rufino Niccacci, guardiano al Convento di San Damiano. Era lui a smistare i rifugiati. Ed era il tipografo Trento Brizi, di Assisi, a stampare i documenti falsi con le fotografie vere, che Bartali poi trasportava per distribuirli». (...) E Bartali? «Dicevano che fosse un grande campione, e che il suo avversario fosse un certo Coppi, ma io non me ne sono mai interessato molto - ammette suor Eleonora -. Però ho visto qualcosa in tv, documentari, filmati, corse, e il ciclismo mi è piaciuto». Ha conosciuto la moglie Adriana e il figlio Andrea: «Gentili e affettuosi. Con la signora Adriana, che ha quasi la mia età, facciamo la gara a chi ha più acciacchi. Io solo alle ginocchia. Adesso mi muovo in carrozzina, una specie di bicicletta. Una volta è arrivato anche un gruppo di ciclisti, pantaloncini corti e scarpe con i tacchetti, camminavano e scivolavano. Che ridicoli» [6].
note
[1] Gianni Mura, la Repubblica, 21 maggio 1982
[2] Claudio Gregori, la Gazzetta dello sport, 16 maggio 2010
[3] Gianni Mura, la Repubblica, 10 ottobre 2010
[4] Gianni Mura, la Repubblica, 4 maggio 2003
[5] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello sport, 2 novembre 2013
[6] Marco Pastonesi, la Gazzetta dello sport, 15 maggio 2012

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