sabato 2 luglio 2016

Briegel e il pericoloso contropiede


HANS-PETER Briegel parla ancora un magnifico italiano. Le erre al telefono vibrano. «I riccioli biondi sono diventati bianchi». È stato negli anni '80 l'incarnazione del prototipo del calciatore tedesco. Potenza, esplosività, resistenza. Da ragazzo aveva lanciato il giavellotto e saltato 7 metri e 50 in lungo. È tornato a vivere a 61 anni nella sua Kaiserslautern dopo essere stato trascinato dal calcio in Turchia, in Albania, in Bahrein. «Ho appena incontrato i dirigenti del club per capire se posso dare una mano a riportare la squadra in Bundesliga. Non è da noi la serie B». In B come il Verona, a cui nel 1984 s'aggregò per farne una squadra da scudetto. Due anni prima aveva perso la finale mondiale con gli azzurri in Spagna, a Roma era stato campione d'Europa nel 1980. «Era il campionato più bello del mondo. Solo due stranieri per squadra ma c'erano i migliori. Maradona, Zico, Rummenigge. È cambiato tutto. Solo Italia-Germania non cambia mai».

Briegel, che cos'è questo Italien- Trauma che affligge il calcio tedesco?

«Nelle amichevoli siamo fenomeni, a Europei e Mondiali vincete sempre voi. È un complesso che esiste ma agli amici lo sto dicendo: durerà pochi giorni. C'è sempre una prima volta. Due anni fa pareva impossibile vincere i Mondiali, perché nessuna europea ce l'aveva mai fatta in Sudamerica. Se siamo riusciti a battere 7-1 il Brasile in casa sua, possiamo anche battere per la prima volta l'Italia a un Europeo. Non è come in Polonia nel 2012».
Che cosa è cambiato?
«I nostri talenti sono diventati dei campioni. Alcuni dei fuoriclasse. Se Loew dividesse i ventitré giocatori che ha portato in Francia in due formazioni, la finale degli Europei sarebbe Germania A-Germania B. La semina cominciata con Berti Vogts sta dando i suoi frutti e non smetterà di darne per anni».
Il calcio italiano le pare in crisi?
«Siete sempre in crisi e siete sempre qua. Avete una bellissima squadra. Chiellini e Buffon potrebbero fare i titolari nella Germania. De Rossi è uno dei miei preferiti. Pellè è una sorpresa. Poi ci sono quei due piccoletti con il nome difficile… Giaccher… Insig… Forse una generazione di campioni si avvia alla fine della strada e non vedo abbastanza calcio italiano per sapere se i ricambi sono all'altezza. Ma quando la natura smette di mandare Baggio e Del Piero, bisogna lavorare di più».
Che cosa ha imparato in Italia?
«Quando arrivai, una vittoria valeva due punti. In ritiro un compagno di squadra mi spiegò che pareggiando trenta volte per 0-0 il Verona sarebbe arrivato a metà classifica. Non ci potevo credere. Quello fu il mio primo impatto con la vostra mentalità».
Chi era il compagno?
«Segreti di spogliatoio. In realtà oggi penso che non avesse torto. Intendo: se hai una squadra che difende bene, che è convinta di saper conservare lo 0-0, un'occasione da gol prima o poi capita. Ma con Bagnoli vincemmo lo scudetto attaccando. Gli allenatori italiani restano fra i migliori al mondo. Se un grande club vuole organizzazione di gioco, pensa prima a un italiano».
Lei è stato anche ct dell'Albania fra 2002 e 2006. Le è piaciuta agli Europei?
«La mia Albania era più offensiva. Una volta battemmo anche 3-1 la Russia. Questa invece si difendeva soprattutto. Ma loro si sono qualificati, la mia no».
È tornato di moda il calcio all'italiana?
«In tanti provano a giocare così. Sembra facile. Non lo è. Bisogna avere difensori adatti, non basta restare in undici dentro l'area. Bisogna conoscere i tempi per l'anticipo dell'avversario e schizzare verso la porta. Contro la Germania molte nazionali si chiudono. Ma non sono l'originale. Il vero grande problema per la Germania è quando all'italiana ci gioca l'Italia. Se devo pensare alla cosa più pericolosa che esiste nel calcio, penso al contropiede dell'Italia. Ma vinciamo noi».

(su Repubblica, 30 giugno 2016)

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