sabato 20 agosto 2016

L'ossessione di Mourinho per Guardiola (e viceversa)


Lui è il capodoglio bianco, l’inseguito, quello che si sottrae. Lui cerca l’equilibrio, sfugge la schiuma, gelido, mai trabocca. Il Buono della storia è questo uomo senza più capelli. Gli ultimi li ha persi per lo stress di una navigazione col vento in faccia, il vento che gli gettava addosso Quello Lì. Chiamatemi Pep: ogni verità è un abisso. Guardiola è uomo di spazi e di linee, panorami e prospettive. È uomo di confini da spostare e mappe da riscrivere. Il silenzio attorno gli è indispensabile. La bava e la spuma che l’altro agita, sono effervescenze da cui scappare. Tutto è curato dentro il suo mondo, tutto è placido e pacato. Anche la barba sfatta ha una sua armonia. Il look racconta la vocazione alla misura. I maglioncini dal collo a V di colore rosso o grigio. La mano che si accarezza il mento. Una bottiglietta d’acqua sempre con sé, in panchina o nel fine partita, perché sorseggiare aiuta a prendere tempo.
Se solo potesse, Guardiola lavorerebbe sempre con un contratto annuale, meglio ancora di sei mesi, per permettersi l’illusione di sentirsi ogni giorno più vicino all’addio, libero di andarsene, portare le vele altrove, come fece quattro anni fa spiazzando i suoi e gli altri, gli amici e il Villain, voltando le spalle alla battaglia, trasferendo moglie e figli a New York e creando l’anno sabbatico degli allenatori. La grandezza di Guardiola consiste nell’essere diventato un rivoluzionario senza aver inventato nulla. Non ha ideato il centravanti di movimento, che esisteva nell’Ungheria anni ’50. Non ha architettato la fitta rete di passaggi palla a terra che era già patrimonio dell’Olanda anni ’70. Ma nessuno prima di lui aveva imposto l’uno e l’altro pensiero al mondo, battezzandoli nella sua lingua, il “falso nueve” e il “tiki taka” come modello globale, anzi come religione. “Le idee appartengono al mondo. Io ho rubato quello che potevo. E tutti possono rubare da me”. No, non è un inventore: Guardiola è un persuasore. Per questo è più insidioso. Mourinho è un motivatore. Ti chiede di gettarti con lui nel fuoco, Guardiola prova a convincerti che il fuoco che vedi non esiste: “Non provate a cambiare i calciatori, la chiave è sapergli schiacciare il bottone”.
Guardiola li schiaccia con aria da seduttore. Ha imparato a districarsi fra l’ego delle stelle con cui lavora. Ma a Barcellona ha speso energie per cercare l’equilibrio esatto tra le concessioni da accordare a Messi e le scelte per il collettivo. Conquistò la venerazione di Leo dandogli il permesso di giocare le Olimpiadi del 2008. Del suo fenomeno diceva: “I calciatori giocano, Leo dipinge. Mi ha dato più di quanto io abbia dato a lui. Se afferra la palla in mezzo a quattro, si gira e la mette all’incrocio, ditemi che merito posso avere”. Eppure di Leo perse il rispetto quando evitò di affrontarlo dopo un rientro in ritardo dalle ferie di Natale. Racconta il biografo di entrambi, il catalano Guillem Balague, che così è nato l’inizio della fine. Oggi si salutano più per gratitudine reciproca che per affetto. Quasi peggio che con Eto’o e con Ibrahimovic. Essere il contrario di un despota può rovinarti. Ma anziché cambiare, Pep pensa sia meglio fuggire. Perciò in cuor suo si rimprovera d’essere sceso una volta a rotolarsi nel fango con Mourinho, quando arrivò a chiamarlo “el puto jefe”, il capo fottuto della sala stampa, al culmine del loro scontro frontale nella primavera del 2011: Barcellona e Real contro per quattro volte in diciotto giorni, vicenda ora raccontata con cura, retroscena e sentimento dal giornalista italiano Paolo Condò in un libro in uscita: “Duellanti” (Baldini&Castoldi).
Guardiola è un laboratorio che cammina. Il suo universo di riferimento è fatto di figure che sul calcio speculano. Come Marcelo Bielsa: “Il più bravo di tutti”. Ma senza snobismo. Parla cinque lingue, imparate alla scuola cattolica di la Salle de Manresa, però non toccategli Carletto Mazzone, uomo di viscere come pochi, suo maestro quando giocava a Brescia. In lui riconosceva i semi da cui è nato. Guardiola è figlio di un muratore e di una casalinga di Santpedor, un’ora di macchina di Barcellona, una di quelle famiglie che in tasca non ti lasciano denaro ma dignità e principi. Il regista David Trueba, suo amico, ripete spesso che nelle costose scarpe italiane di Pep, batte sempre un cuore con le espadrillas. Attori, scrittori, poeti: Guardiola ne è circondato. Lo cercano, e lui cerca loro. Il calcio è stato un pretesto per frequentare Lluís Llach e Miguel Martí i Pol, cantautore e poeta, bandiere dell’anti-franchismo e della diffusione della lingua catalana in reazione alla dittatura. “Gioco per la Spagna solo perché queste sono le regole” disse una volta. La politica è il solo terreno su cui l’uomo mite accetta di farsi estremo. A Manchester, come in una canzone di Battisti, dovrà evitare tutti i posti che conosce e che frequenta anche Mou. Oppure cercare la propria linea d’ombra, attraversarla e accettare finalmente l’idea di essere diventato pure lui uguale a noi, cattivo, il più perfido tra i candidi.

(da Il Venerdì del 12 agosto 2016)

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