sabato 12 novembre 2016

Fatelo voi, l'allenatore


Quando Vialli si alzò dalla panchina all'ultima giornata, battuto per 3-2 dal Gillingham, in cuor suo sapeva già come sarebbe andata a finire. Elton John non era più presidente del Watford da diciotto giorni e quelli dopo di lui gli avrebbero fatto pagare le diciannove partite perse in un anno. Contratto risolto. I giornali italiani scrissero che gli offriva un posto la Reggina. Vialli rispose come Bartleby lo scrivano, preferisco di no, sono passati quattordici anni e il momento giusto non è tornato ancora. Si sta più comodi sulla sedia che nel frattempo gli ha dato Sky: undici allenatori di serie A su venti guadagnano meno di lui e non c'è sconfitta che possa fargli del male.

Billy Costacurta ha impiegato perfino meno a decidere. Dopo quasi cinquecento partite in difesa con il Milan, sette scudetti e cinque Coppe dei Campioni, progettava il percorso classico e aveva preso il patentino da allenatore. Sette mesi gli sono bastati, quattordici partite sulla panchina del Mantova in serie B, per dimettersi e lasciare il campo. Per sempre. Era il 2009 e non è tornato più, meglio la televisione, il sudore sì, ma quello sotto le luci in studio. Sono stati campioni e sono stufi del prato. Hanno smesso di essere attori, adesso preferiscono il racconto. La panchina? È roba vecchia.

Antonio Di Gennaro ha vinto lo scudetto del Verona (1984) e ha giocato un Mondiale nel 1986 con la nazionale di Bearzot. Da quindici anni non allena, «in questo modo» scherza, «faccio la finale di Champions». È la seconda voce di punta a Premium Sport, la pay tv in digitale terrestre di Mediaset che detiene l'esclusiva della vecchia Coppa dei Campioni. «L'allenatore volevo farlo» racconta,«ma nel 2001 il Milan cacciò Terim di cui ero il vice. Se lo avessi seguito al Galatasaray, non sarei arrivato in televisione. Invece mi misi in testa di provare a far carriera da solo, tenevo i contatti con Braida, aspettavo una chiamata, mi sarei accontentato di una C1. Il treno non è passato. Nell'attesa andai a fare la telecronaca di un Milan-Lens. Inzaghi segnò una doppietta. Mi divertii e non ho smesso più».

La vita di una «seconda voce» è fatta di lunghe preparazioni alle infinite ipotesi che una partita di calcio sa proporre. Per quello l'agenda è nota con un mese di anticipo. Le designazioni arrivano a blocchi di tre o quattro partite. Si studia. «Sento i colleghi che hanno già visto quella tale squadra» spiega Di Gennaro, «dirigenti e allenatori mai. Ormai sono una controparte, non mi racconterebbero nulla di interessante». Nell'era del calcio criptato, quello in cui gli stadi si svuotano e le tribune si trasferiscono sui divani, anche un campione può sentirsi protagonista più con una cuffia in testa che sbracciandosi dalla panchina.

Beppe Bergomi alzò da diciottenne la Coppa del mondo a Madrid (1982). È diventato quello di «andiamo a Berlino» (2006). Quando un giorno gli hanno offerto di guidare l'Under 21, non se l'è sentita di mollare il microfono. Dice:«In questo modo non si finisce mai di aggiornarsi e di tenere le orecchie aperte. In tv esiste uno scambio continuo di idee e di sfumature. Se con la mia mentalità da difensore parlo con Leonardo, che vorrebbe invece vedere sempre tutti all'attacco, finisco per guardare il calcio in modo nuovo. Per un allenatore invece l'ultima occasione di confronto con l'esterno è il corso di Coverciano: dopo bisogna solo aspettare un esonero».

L'indottrinamento comincia dalla tecnica. «Claudio Arrigoni era il direttore di Tele+, venne a prendermi con Fabio Caressa nella mia casa in montagna. Mi diede subito due indicazioni: se non hai niente da dire meglio star zitto; se devi ripetere le frasi del telecronista meglio tacere. In 60 minuti di telecronaca, ce ne sono 45 per la prima voce e 15 per me. Devo usarli bene». Bergomi in settimana colleziona ritagli di giornale. «L'anno scorso prima di Juve-Napoli ho raccolto tutto quello che uscì in Italia sulla partita. Bisogna dimenticare il linguaggio neutrale da addetti ai lavori. In telecronaca viene più naturale, in studio devi liberarti del pensiero di non dispiacere qualcuno con i tuoi giudizi. Di fronte a un vecchio compagno di squadra succede che si faccia un passo indietro, ad altri non si perdona nulla: a Benítez, per esempio, si poteva rimproverare di tutto. Ma sbaglia chi in tv parla senza irritare nessuno, nella speranza di entrare nel giro. È questa ora la mia strada. Solo se un giorno chiamasse l'Inter, forse vacillerei».

Nell'interpretazione anni Ottanta del ruolo, si andava in tv durante il periodo di disoccupazione. Agroppi spiccava da polemista alla Domenica sportiva: gli arrivarono offerte da Fininvest e dalla Lucchese. Oggi Sky non gradisce che si lasci a stagione in corso per prendere al volo una squadra, magari piccola, magari in B: c'è chi al successivo esonero ha trovato le porte chiuse. A una seconda voce si chiede più consapevolezza. È un lavoro cambiato ma con radici antiche. Come scrivono De Luca e Frisoli in Sport in tv, già ai Mondiali del ‘54 la Rai partì con la telecronaca in coppia: Carlo Bacarelli e Vittorio Veltroni. Agli Europei del ‘76 in cabina si affacciò per una partita Gigi Radice, allenatore del Torino. Fabio Capello cominciò su Tele Montecarlo. Sandro Mazzola è stato l'unico a raccontare due Mondiali vinti dall'Italia su due tv differenti: Tmc nel 1982 e la Rai nel 2006. Eraldo Pecci non rinunciò mai alla sua ironia surreale. Per due piedi di legno inventò «il dribbling del falegname» e invitò i telespettatori a mettersi davanti alla tv alle 20 e 30 «perché dietro non si vede nulla». Una sera chiese a Pizzul:«Sai perché i portieri turchi sono i migliori? Perché sono ottomani». Lo fermarono.

Oggi la seconda voce non improvvisa più. Mette in campo erudizione e cultura sportiva. Agli ultimi Europei, Luca Marchegiani era in sala stampa con quattro ore d'anticipo. A studiare. La Bibbia si chiama Wyscout, un database creato a Chiavari e diventato un fenomeno mondiale: contiene centinaia di migliaia di calciatori su cui si può sapere tutto, con filmati e clip su come passano la palla, come saltano l'uomo, come calciano in porta. Le statistiche di Opta sono un'altra bussola.

L'eccellenza si chiama Daniele Adani. Praticamente un secchione. Ha cominciato a Sportitalia e pur di averlo Sky ha sorvolato sul fatto che da calciatore non fosse un idolo delle folle. «In giro» dice Adani, «c'è un mucchio di gente che parla di calcio e si propone in un ruolo che non è il suo: il giornalista vuol fare l'allenatore, l'ex calciatore fa il giornalista. Per essere credibile allora bisogna studiare, conoscere le idee dei protagonisti, la filosofia delle società, lo stile dei calciatori. Più dati conosci, più intuizioni si faranno vive durante la partita». È come per i cronisti di nera. Non c'è un orario in cui si smette. «Il calcio è come il denaro: non dorme mai. A volte di notte resto sveglio per guardare le partite in Sudamerica, la curiosità mi spinge a cercare un calciatore che non ho mai visto, farmi affascinare, sentire un brivido nella pancia, fremere nell'attesa di poterlo rivedere presto». Due anni fa Mancini gli offrì il posto da vice allenatore all'Inter. Adani scrisse una lettera aperta per motivare il rifiuto: «Ho la fortuna e il privilegio di poter raccontare il calcio con tutto l'amore e la passione che ho per questo gioco e voglio continuare a farlo».

Adani può spiegare come difende un terzino uzbeko e perché il centrocampo di quel club islandese soffre i ritmi bassi. «Chi paga non vuole ascoltare banalità. Lo spettatore deve sapere che c'è uno studio dietro una sentenza e una storia dietro un calciatore. Mi scoraggiano la faciloneria, le etichette, il pensiero semplicistico, la frase pronunciata per dare l'idea di essere un intenditore. Come quando si dice: quello non è un regista, quello non può giocare con quell'altro. Mi rattrista se poi la frase viene da un ex collega. Il calcio è in continuo cambiamento. Io studio una squadra nella sua evoluzione, ascolto l'allenatore nelle interviste dopo una partita, mi piace guardare le reazioni a caldo, il linguaggio del corpo, a quale minuto fa i cambi, chi sostituisce chi. Aver giocato aiuta a leggere il calcio, ma il credito non è eterno. Se devi parlare del Genk, non conta aver giocato, conta averlo studiato». L'allenatore fatelo voi. La narrazione, come si dice, vince su tutto. Pecci lo aveva intuito. In telecronaca gridò a Kluivert: «Cosa diavolo tiri che stiamo parlando?».

(dal Venerdì del 4 novembre 2016)

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