domenica 13 novembre 2016

Il mare di Enzo Maiorca


Mare ora inquieto ora cheto, ora torbido. Onde tra il limaccioso e il pastello. Flutti di mare negli occhi. Colori cangianti, che giocano a nascondino come le emozioni. Il mare come amore, il mare come ossessione. La passione tra l'acqua ed Enzo Maiorca, 69 anni, 28 volte recordman di apnea, è antica.
«A due anni a causa della mia salute cagionevole miei genitori andarono a vivere in riva al mare, a Grottasanta, 3 chilometri da Siracusa. Il primo ricordo che ho della mia vita è una distesa di acqua delineata dal contorno delle finestre che si affacciavano tutte sul mare. Le onde sbattevano negli infissi e lasciavano sui vetri scaglie di sale che si animavano con la luce. Quando tornava il sereno mi abbagliavo con tutto quel luccichio. Vedevo cento soli, cento lune, migliaia di stelle, tanti arcobaleni. E fantasticavo su cosa ci fosse al di là dell'orizzonte dell'acqua, dentro le onde». Maiorca parla con una voce da tenorino, flebile, delicata. E dire che ha polmoni infiniti, capaci di resistere senz'aria per sette minuti abbracciato agli oceani, e il coraggio di sfidare l'ignoto degli abissi e l'ignoto dentro il suo cuore.


L'infanzia vola, un tuffo dopo altro dagli scogli gemelli della contrada "Due frati", poi la guerra. Brutti ricordi. Sangue e miseria. Buio e paura. «La nostra villetta era accanto all'ospedale. Lo sbarco degli inglesi fu preceduto da una notte di bombardamenti: 28 febbraio 1943, un inferno. Sento ancora i boati nelle orecchie. Urla, sirene, pianti, fughe. E un via vai di auto, carretti e muli che trasportavano morti e feriti all'ospedale. Ricordo una scia bluastra sulla strada sterrata. Era sangue perduto. E il corpo straziato di Tonin». Tonin è un alpino, il più bravo a tuffarsi dai "Due frati". Un angelo. Il giorno dello sbarco, mentre tutti buttano alle ortiche le divise e si imboscano, lui rifiuta gli abiti borghesi che gli offre la madre di Maiorca, indossa l'uniforme e si avvia verso Siracusa. Intravede gli inglesi che avanzano e si asserraglia dentro un fortino abbandonato, sguarnito di soldati, ma ben fornito di armi. Per cinque ore ingaggia un combattimento impari. Stremato cade infilzato dalle sciabole. «Ricordi amari. Per fortuna la vita riprende. Come i tuffi. E la sera a raccontarci prodezze in piazza, una sorta di circolo nautico sotto le stelle. Un giorno arriva uno della combriccola sventolando la Gazzetta dello sport che celebra l'impresa dei napoletani Falco e Novelli, scesi in apnea fino a 41 metri. È un record destinato a restare imbattuto nel tempo, annuncia il giornale. «Mi scattò nella testa l'idea della sfida. Niente resta imbattuto per sempre». Comincia la saga dei trionfi. Primo record nel 1960 con 46 metri. La Gazzetta era servita. Poi a 49 metri. «Mi fermai a quella quota perché i medici mi avevano avvertito che a 50 metri sarei rimasto schiacciato. La scienza allora ci frenava. In seguito grazie alle nostre imprese ha capito segreti ancora non svelati degli abissi e del corpo umano». Majorca e le due figlie, Rossana e Patrizia, anche loro campionesse del mondo di apnea, sono stati studiati per un mese negli Usa come cavie. Se oggi il primato ha superato i 150 metri è anche merito loro. Un quinquennio di record tranquilli, un metro all'anno, da bravo ragioniere della profondità, poi, con l'arrivo del ciclone Jacques Mayol comincia un quarto di secolo di sfide infernali. Un tira e molla che appassiona milioni di sportivi. Nel 1990 Maiorca fallisce l'obiettivo di superare il suo primato di 101 metri e getta la spugna. «Il mare mi aveva avvisato che era il momento di chiudere. Non è vero che il mare profondo è silenzioso. Parla, eccome, a chi ha cuore». Finisce la sfida nelle acque buie e con Mayol inizia quella in tribunale. Il francese sceneggiatore del film "Le grand blu" di Luc Besson, sulla loro epopea, dipinge il rivale siciliano come un mafioso. «Uno sgarbo che non mi aspettavo e dire che per due volte l'ho ospitato con la sua famiglia nella mia casa di Ortigia». Ecco la sua casa con il terrazzo - pieno di bouganvillee, bianche e fucsia, gerani, gelsomini, piante grasse - che abbraccia 360 gradi di bellezza. Il mare a cento metri, le coste calabresi, i tetti di Siracusa. Ed ecco in lontananza Grottasanta, una selva di palazzi. «I cortili interni ormai imprigionano il cielo. Che nostalgia dei vecchi tempi, quando le stagioni erano scandite dalle fioriture dei campi: iris, anemoni, zagara, margherite, ginestre. E i mandorleti così carichi di fiori da sembrare campi di neve». Guarda la moglie Maria e la voce si addolcisce. «Ancora oggi la guardo e mi emoziono, come 50 anni fa. Fu lei a regalarmi il primo respiratore vero. E d'allora non mi ha mai ostacolato nelle mie avventure». Per la verità la prima maschera usata è un residuato bellico: un'antigas adattata. Tempi di povertà, di drammi e di allegria. Da allora conserva in una stanza i cimeli da sub: anfore, palle di catapulte, vasi («Tutti regolarmente autorizzati»), medaglie e coppe. Non si è mai montato la testa il campionissimo. «Come avrei potuto? Domenica ero l'eroe e il lunedì il signor "Uffa", un informatore scientifico che faceva aspettare i pazienti mentre spiegava i nuovi farmaci al medico». Oggi Maiorca va sempre in immersione; ma non infilza più prede. «Sono un pescatore pentito. Fu una cernia a convertirmi. Dopo averla ferita la toccai e sentii il suo cuore battere forte di paura. Mi sconvolse». Quando può insegna ai cinque nipoti i segreti del mare. «Mai sfidarlo - raccomanda - io ho sempre sfidato solo me stesso, il mare no. Mai illudersi di conoscerlo; un luogo dove sei sceso 50 volte alla successiva non è più lo stesso. E soprattutto amarlo». Ogni giorno dalle 13 alle 15 va a correre in un sentiero tra gli scogli di Mazzolivari. Suda, sbuffa e sazia gli occhi e i polmoni di mare. Poi, libri, cinema e musica. E domani? «Mi sto preparando per ripercorrere la rotta di Ulisse da Troia a Itaca. Lui ci mise dieci anni, io spero di farcela in tre mesi». La signora Maria sorride compiaciuta. Nemmeno stavolta fermerà il suo eroe.[1]

***

Siracusa - Lo vedi incresparsi come acqua di porto al ruggire di un ricordo, lo senti impennarsi come onda al riaffiorare di un legittimo orgoglio, lo ascolti farsi scuro e buio sotto la coltre di un dolore pudico. Ha il mare dentro Enzo Maiorca. Lo ha, certo, negli occhi, ma è nella voce che lo riconosci. Ottant'anni fra una manciata di ore per questo siciliano fiero che se ne sta sul bordo di Siracusa. Sotto una jacaranda che sparge petali blu sul prato e tende i rami oltre la baia, verso Ortigia. "Sembra un mazzo di fiori in omaggio al mare".
Racconta una vita in apnea, a testa in giù nel profondo e nel freddo, per inseguire un sogno, un record, un traguardo. Ma è nella risalita che si misura l'uomo. "Tutti i peccati che commetti in superficie li espii in risalita, l'askesis greco, l'ascesi è espiazione". Giù è la temerarietà di un'immersione a capofitto nel buio lungo una corda: 30, 50, 60 metri. E poi, ancora, con i timpani che quasi esplodono, "un dolore lancinante", fino al limite e oltre: 101. Ma bisogna tornare su. "Pinneggiare con le gambe che sembrano insugherirsi, farsi legnose, il cervello che manda impulsi e loro che vorrebbero bloccarsi". Lì, di fronte a quella "fatica improba", serve volontà. Il trionfo, la gioia che stringe tra le dita il cartellino è rimasta sotto, qui e ora c'è da tornare alla luce. Con i polmoni che chiedono aria e il cuore che vuole tornare a battere al tempo della vita.
Rinunciare: accade. Per paura. "È una giusta compagna che ti tiene vigile". Fuggire: no. Nei ricordi di Enzo Maiorca c'è Tonin, un alpino bellunese, rimasto da solo a mitragliare contro gli inglesi, che planando sugli alianti in una baia ormai muta, avevano espugnato la costa il 10 luglio del 1943. Tonin, l'angelo che volava sull'acqua tuffandosi dalle rocce, è in divisa a difendere l'indifendibile, asserragliato al suo posto da combattimento su un tappeto di camicie nere abbandonate dai fuggiaschi. "Io ero stato educato a credere nel dulce et decorum est pro patria mori. Trovavo la fuga vergognosa. Ma gli Hitler e i Mussolini non mi sono mai piaciuti".
Più in là nella memoria ci sono dei sommergibilisti superstiti "inzuppati e sanguinanti" portati all'ospedale, a bordo di un carro inglese.
"Quella sera cessarono i lamenti e tutti insieme cantavano il Nabucco". Battuti, ma non perdenti, a loro modo fieri e vivi. Enzo Maiorca aveva dodici anni allora. Quelle vicende segnarono le scelte di un uomo che non è "mai stato fascista" ma votava Msi e, al Parlamento, nel 1994, andò da senatore di Alleanza nazionale, restandoci per due anni, trascorsi a litigare. "Vissi in uno stato di attrito permanente. Non ho mai sopportato i colonnelli. Rifiutai la ricandidatura: me ne torno al mare, gli dissi". Primo giorno a Palazzo Madama, il suo primo no. "C'era da votare il condono edilizio. Come facevo?". Mare e cemento non vanno d'accordo. "Anche adesso, vogliono massacrare questa costa con il progetto di due porti e di un villaggio. Hanno immaginato un'isola artificiale, cemento e mattoni sulle necropoli, follia pura. Tacciono sui reperti che stanno in fondo al mare. Non vogliono che affiorino, tutto verrebbe vincolato". Con la figlia Patrizia e "Sos Siracusa" sostiene una campagna quotidiana contro la speculazione e a difesa della splendida riserva naturale del Plemmirio. I progetti si sono incagliati sulla muraglia dell'indignazione che Maiorca puntella senza troppe illusioni. "A nord di Siracusa pagammo il prezzo all'industrializzazione del petrolchimico, creando generazioni di "spostati", contadini e pescatori entrati in fabbrica, sradicati dal loro ambito e dalle loro idee. Allora, negli anni Cinquanta, ci sembrava un giusto prezzo per uscire dalla miseria. E così questo mare lo abbiamo visto di tutti i colori: rosso, grigio e con le mèches. Ci consolava sapere che rimaneva salva la costa di levante e quella a sud. Non è così, niente è più al riparo dalla voracità".
Rievoca, pietra dopo pietra, scoglio dopo scoglio, ogni metro della sua costa passeggiando con Maria, la compagna di una vita. Si conobbero sul treno che riportava lei e il padre in città dalle celebrazioni dell'Anno Santo. Lui, diciannovenne, figlio di Guglielmo, un borghese che viveva curando i propri giardini, tornava dall'università: studi in medicina, poi interrotti. "Roma era un compromesso, quasi un ricatto. Volevo fare l'ufficiale di Marina, mio padre me lo vietò. Ma ciò che mio padre mi ha negato me lo sono ripreso e con fatica. Conquistato per modo di dire, perché il mare non si lascia prendere da nessuno". Va fiero della medaglia al merito della Marina, per le imprese sportive e "l'ardore nella difesa del mare".
Per il bambino che se ne stava ore appollaiato alla finestra della casa di Grottasanta a scrutare l'azzurro non doveva esserci altro destino. Fu mamma Gemma, toscana, a lasciarlo nell'acqua incoraggiandolo a pescare le telline. E fu con una maschera, rabberciata cucendo e incollandone una antigas abbandonata dai soldati, che vide il fondo per la prima volta. "Entrava acqua da tutte le parti, ma potevo guardare". La fidanzata, poi moglie, gli regalò la sua prima vera maschera da sub e a Ischia, in viaggio di nozze, lui le insegnò gli stili del nuoto. Lui che non pesca da molti anni, da quando sentì pulsare il cuore di una cernia appena infilzata, fece il pescatore per vivere. Dovette industriarsi, quando, a venticinque anni, decise che con Maria avrebbe messo su famiglia. Poi informatore medico scientifico per trent'anni.
"Era il mio lavoro, quello con cui mi guadagnavo lo stipendio. E mi piaceva. Come mi avevano insegnato, illustravo i difetti di un prodotto prima di esaltarne i pregi, ora dappertutto è un raccontare di virtù nascondendo il peggio. È l'epoca dei venditori, l'epoca di Berlusconi". Il giro di ambulatori per alimentare la passione. "Le immersioni, i record, lo sport, quello mi ha dato da vivere e tanto, ma non i soldi". Anche i giorni del primato divennero trattenute in busta paga, per un congedo a zero assegni.
Aveva smesso per lunghi anni, dopo la bestemmia in diretta tv nel 1974 per un cameraman incrociato tra la sua testa e il cavo. "Successe di tutto in quella settimana, all'ultimo giorno utile per tentare, prima di una libecciata imminente, un altro cameraman andò in ebbrezza da abissi e strappò tutti i contrassegni segnametro. Il giorno dell'incidente ritardammo di cinque ore l'immersione perché il cavo si era avviluppato intorno a quello della tv e per liberarlo, anziché utilizzare gli arnesi della nave appoggio, calarono un palombaro. Avrei forse dovuto dire di no ma significava anche rinunciare al fascino della tv".
Negli anni lontano dai record, Patrizia e Rossana, l'altra figlia, crescevano tra barche, bombole e apnea. Furono loro a convincerlo a riprendere. E arrivarono stagioni di successi per quel trio di padre e figlie che si emulavano a vicenda. "Rossana aveva qualcosa in più che la portava a fare determinate cose con naturalezza". Rossana se n'è andata per una malattia, sei anni fa. "Non è vero che il tempo è medicina. Non c'è giorno in cui Maria e io non torniamo nei posti dove siamo stati con lei. Era più capace di me, poteva fare di tutto". Per quella figlia strappata c'è stato l'orgoglio e perfino una punta di rivalità. Ora c'è il ricordo continuo, avvilente che tormenta "chi non crede nell'aldilà".
È un'unica gigantesca macchia in una vita felice. "Mi piace vivere. La mia è stata una vita piena e densa". La voce si infrange sugli scogli della sofferenza. Serve pinneggiare per risalire. Altri ricordi: Jacques Mayol, l'antagonista dai duelli memorabili, morto suicida all'Elba. A sorpresa, Maiorca tira fuori il suo nome quando si tratta di indicare chi gli era più simile. Anni di cronache a descriverli diversi che più non si poteva: il siciliano a ragionare, il cino-francese più incline al misticismo, la battaglia sulla sceneggiatura del film di Luc Besson, Le Grand Bleu. "Eravamo affini, il punto di contatto stava nel rispetto con cui ci muovevamo nell'acqua. Passavamo ore a litigare sulle correnti marine che invalidavano la giusta misura dei nostri successi. Mi manca Jacques". Negli anni della sfida a spararsi bordate oltre il limite dello sberleffo, nei successivi a rievocare quelle stagioni come protagonisti di un'epopea in cui i computer si chiamavano elaboratori elettronici. Il mare li teneva insieme, sull'altare di un sogno in cui l'acqua è dio, il mondo perfetto, con l'equilibrio da sfiorare nel silenzio di un corpo che gli scivola dentro.
"Credo in qualcosa, credo nel mare ed è lì che ritrovo il rumore del silenzio". Il mare come religione, come disciplina, come etica. E in fondo al mare c'è sempre l'uomo. Parla attraverso i cocci di un'anfora, i ferri di uno scafo. "Quando ti imbatti in un reperto, pensi alle speranze alle illusioni agli ideali di quell'uomo vissuto anche tremila anni fa". Si illumina con i colori "del corallo che si incendia sotto la torcia, in una grotta che è un tempio giù nel canale di Sicilia, in un trionfo di luce filtrante da due fori in cima alla volta". A volte parla con rintocchi di campana a morto, come nel fondale di Capo Passero. "Era a poppa di un piroscafo affondato. Provai a disincagliarla senza riuscirci e la sentii suonare mentre risalivo. Tornai giù ancora una volta e la sentii suonare di nuovo. Ero turbato ma attratto, mi avvicinai e scorsi un gigantesco polpo abbarbicato alla campana che con uno dei tentacoli batteva ritmicamente sulla parete". La memoria viva di quell'immersione è sull'avambraccio destro di Maiorca: il suo unico tatuaggio.
Ora i giorni sono occupati dalle battaglie per il mare, dai libri, dai nipoti e dal periplo di Ortigia. Maria è sempre accanto. Al mare torna quando può, quando il cuore glielo permette. "Fa qualche bizza ogni tanto", dice con noncuranza. Poi racconta del ricovero nel 2005 e dei medici che dissero: "Lei ha chiesto tanto a questo cuore: è giusto che lo lasci riposare un po'". Ma immaginarlo in ozio è impossibile, del resto "la posizione migliore per l'uomo è in piedi, perché la testa è più vicina al cielo". [2]

[1] Tano Gullo, la Repubblica, 29 ottobre 2000
[2] Enrico Bellavia, la Repubblica, 19 giugno 2011
la foto è una vignetta uscita sul Corriere della sera il 31 luglio 1988

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