venerdì 17 marzo 2017

La commedia nera di Francesco Recami

FIRENZE. Benedetta la perfidia tra le pagine dei libri. "D'altra parte la cattiveria esiste, appartiene al mondo, non sarò mica malvagio solo io". Francesco Recami consuma due caffè e altrettante sigarette davanti alla basilica di Santa Maria Novella. "L'editore mi rimprovera: tu odi il lettore. No che non lo odio, casomai non lo metto a suo agio". Con la copertina blu-Nazionale della Sellerio, Recami è in libreria con Commedia nera numero 1 a cui seguiranno la due, la tre, e via così. Già il titolo è parodia di una tendenza, la serialità da cui Recami arriva con i gialli della casa di ringhiera. Ora il nuovo filone, partito con l'ispettrice di polizia Maria Antonietta che vessa suo marito (Antonio Maria), costretto in uno sgabuzzino, ad ascoltarla mentre fa sesso con i suoi agenti e a fallire nei tentativi di fuga. "Una narrazione fumettistica. Ho creato personaggi piatti perché lo siamo tutti".


Recami, quali sono i suoi modelli di commedia nera?
"Il cinema di Dino Risi. La serie tv britannica Inside Number 9. Le opere di Brancati. Ma nei miei romanzi ognuno è libero di vederci i modelli che vuole. Un giornalista, lei saprà come fanno, una volta mi intervista e chiede: il suo libro cita Il Serpente di Malerba. Certo, gli rispondo dritto. Non lo avevo mai letto. Poi per curiosità andai a recuperarlo e sembrava pure che avesse ragione lui".

Perché tra i riferimenti c'è anche Wile il Coyote?
"Mi consentiva di introdurre una metafora sessuale. Andiamo, perché mai Wile inseguirebbe Beep Beep? Certo non per fame, altrimenti sarebbe già morto da tempo di inedia. È per quella cosa lì. In fase di scrittura ho provato la trama a generi invertiti, con un commissario maschio e stronzo, infedele, esuberante sotto il profilo alimentare. Era banale. Il meccanismo sovvertito fa ridere. È sgradevole. Non ci si identifica. Diventa inaccettabile sia per la famosa lettrice italiana media sia per il maschio abituato al cliché della donna preda. I maltrattamenti economici e l'egemonia dello stipendio maschile creano nelle case meccanismi psicologici sottili. Sono come l'antisemitismo: hai voglia a dire che non c'è. Invece esiste".

C'era tanta ferocia nel suo esordio, "L'errore di Platini", storia di un infanticidio dopo una vincita al Totocalcio. È vero che nessun editore lo voleva?
"Eravamo in piena epoca di realismo magico. Mi rispondevano che non andava bene raccontare la realtà in modo crudo. Lavoravo nella redazione del Devoto- Oli, poi ho fatto l'editor scientifico per libri di genetica e biochimica. Ho aperto uno studio editoriale e ha iniziato a funzionare. Oggi le case editrici esternalizzano quasi tutto. Sono eserciti di colonnelli, i soldati stanno fuori. Campavo di quello. Finché Elvira Sellerio dodici anni fa mi chiamò per chiedermi come mai non avessi più pubblicato quel manoscritto che le avevo inviato negli anni Ottanta. Io lo avevo rimosso, lei ricordava tutto. Non lo avevo pubblicato perché mi avevano detto di lasciar perdere, e io avevo lasciato perdere. Lei mi ha dato la spinta".

Rispetto ad allora, l'ultimo libro sembra quasi opera di un'altra persona.
"Per me è un complimento. Stavolta ho cercato di appiattire la lingua. Se diventa protagonista, addio. Il narratore deve scomparire. Non si può riscrivere sempre lo stesso libro".

Perché allora la serialità?
"Mi trovo benissimo a lavorare su commissione. La casa di ringhiera è nata così. Se mi chiedono un racconto in cui una bimba piange perché il nonno non le ha regalato le caramelle, io parto e scrivo. C'è più libertà nel muoversi tra paletti che spaziando in campo aperto. Ma ho cambiato soluzioni all'interno della serie: il poliziesco, il giallo-rosa, il topos dell'uomo in fuga. Quando a Milano vidi una casa di ringhiera, mi parve una rivelazione. Era una perfetta scena shakespeariana. Ogni tanto incontro qualcuno che mi domanda: come hai fatto a capire la mentalità dei milanesi? Semplice. Non l'ho capita. Il fatto è che siamo tutti uguali, impauriti da chi arriva da fuori e terrorizzati che qualcosa possa accadere a causa nostra".

La serialità diventa una condanna?
"Funziona perché è favorita dai meccanismi di distribuzione. Quando un romanzo va in produzione, viene presentato ai librai attraverso una scheda in cui va indicato un cosiddetto libro gemello. Il terrore degli editori è stampare troppo o troppo poco. Chi sbaglia tiratura, ci rimette. Ecco che il mercato incita a fare libri tutti uguali. Tutti libri gemelli. Uno come me, se non scrive la serie sulla casa di ringhiera, viene guardato con sospetto, perché non ha libri gemelli a cui appoggiarsi. La stessa mania degli esordienti nacque su questo presupposto: era più facile presentare un giovane nella scheda come il Faletti napoletano o il Simenon di Borgo Buggiano. Conosco un mucchio di serialisti che si sono stufati ma non possono smettere. Perciò, nei borghi della narrativa italiana popolati da tre anime, ci scappano quattro omicidi all'anno. Vanno in crisi non tanto i commissari, ma gli investigatori per caso. Malvaldi ha dovuto far fidanzare il suo barista con una poliziotta".

Che libri c'erano in casa sua da bambino?
"Ricordo Sussi e Biribissi di Paolo Lorenzini, detto Collodi nipote. Erano parodie di libri famosi, tra l'avventuroso e l'umoristico, tra Salgari e Verne, in uno spirito molto toscano, assai scettico. Vengo da una famiglia borghese, dove il figlio maggiore doveva fare l'ingegnere e la figlia doveva sposarsi. Mio padre era direttore di banca, mia madre laureata in farmacia ma non ha lavorato per occuparsi dei figli. Quando mi sono iscritto a Filosofia, si sono disperati. E così per mia sorella, che ha fatto l'insegnante".

Campione di vendite a cinquant'anni. Ha rimpianti?
"È stata una fortuna. Vedo trentenni perdere la testa all'esordio, il loro secondo libro già fa schifo, entrano in quel giro assai romano di autori-giornalisti, un monduccio, in cui tutti si recensiscono fra di loro. Una piccola casta che poi si scaglia contro gli autori di noir. A volte, debbo dirlo, con ragione. Ce ne sono alcuni che esagerano con il linguaggio paratattico e il lessico ridotto. Giocano solo sul personaggio. E proliferano gli imitatori di una pessima scrittura, alla Faletti".

Nove anni fa lei fu finalista al Campiello con "Il superstizioso". Con il noir si è auto-escluso dai premi?
"Forse inconsapevolmente. Più entro in contatto con l'ambiente e peggio sto. Sulla porta di casa non c'è la targa: scrittore. Non ho biglietti da visita. Oggi potrei mantenermi con i miei libri, non lo faccio perché si diventa scemi. Si comincia a pensare in funzione delle aspettative dei lettori. Perciò non ho lasciato il vecchio lavoro".

Qual è il suo metodo?
"Non ne ho. Sento alcuni che si impongono di scrivere 5.000 battute al giorno. Ma cosa scrivi se non hai niente da dire? Se ho cose, vado veloce, quasi di getto, poi lascio il materiale a candire, certe volte per mesi, e dopo posso riguardarlo come se fosse di qualcun altro. Però sono un programmatore. Riempio la casa di mappe, schemi strutturali, diagrammi".

E per i personaggi?
"Mi basta metterli in cattiva luce. Non ne amo nessuno. Ho difficoltà a crearne di positivi, ce ne sono già tanti in giro. L'unico riferimento solido per questi inetti e per questi fallimenti sono io. Scrivo per prendere per il culo me stesso. E so che non gliene importa niente a nessuno".

(la Repubblica, 15 marzo 2017)

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