sabato 15 aprile 2017

Il terzo funerale di Totò

La bara entrò nella basilica sulle spalle di certi uomini, d’onore. La figlia del defunto se ne stava seduta in prima fila, gli occhi sgranati, l’abito nero. Piangevano tutti, parenti e amici, piangevano pur sapendo che il morto in verità non c’era. Ai piedi dell’altare di Santa Maria della Sanità vuota era la cassa, perché Antonio Angelo Flavio Comneno Grippa Focas Lascaris di Bisanzio, principe della risata sotto la maschera di Totò, aveva già preso congedo dai suoi cari per due volte, salutato e sepolto, e al terzo funerale stavolta era presente solo per finta. Una specie di ultimo show.


Il mondo che lo amava non era riuscito a contenere tutto il dolore dentro un solo addio. Troppo poco. Le tre di notte tra un venerdì e un sabato, il 15 aprile del ’67: sono passati cinquant'anni dalla morte e dall'epilogo più incredibile che potesse avere questa vita per metà nobile e per metà modesta. Mentre prendeva coscienza che l’indigestione era in realtà un infarto, Totò fece in tempo a consegnare al suo cugino e segretario Eduardo Clemente 120 mila lire per le esequie, raccomandandosi che tutto fosse fatto con quella cifra, dunque con semplicità. Il punto è che poi mormorò «portatemi a Napoli», mettendo una pietra sul proposito di sobrietà.

Tremila persone erano arrivate a salutarlo nell'appartamento romano in via dei Monti Parioli 4, salone con moquette gialla, una gabbia di uccelli esotici in un angolo, la foto con la dedica di Umberto di Savoia. Attori, industriali, ministri e impresari nella chiesa di Sant'Eugenio, in viale delle Belle Arti: un rito semplice e breve. Il primo. Poi, vestito di una giacca blu di taglio marinaro, bottoni d’argento, cravatta nera, pantaloni grigi e calzini rossi, le mani poggiate su un mazzo di rose e un’immagine di Sant'Antonio di Padova accanto a sé, Totò venne accontentato e tradito allo stesso tempo, viaggiando con gli occhi chiusi per sempre dentro un furgone verso Napoli, dove le cose si fecero un filo più barocche. Impiegò due ore per passare tra la gente e coprire il tratto di sei chilometri dal casello dell’autostrada fino alla chiesa del Carmine, nella piazza in cui alla folla aveva parlato a suo tempo Masaniello. Garofani, tulipani, rose. Petali lanciati dai palazzi. Gente aggrappata alle statue dei santi, alle colonne, perfino sull'organo. Al funerale numero due provarono a entrare in trentamila, la moglie Franca e la figlia Liliana non ci riuscirono, mentre Napoli abbassava serrande e chiudeva portoni in segno di lutto.

«Mio nonno voleva farsi carico dell’organizzazione, Nino Taranto ringraziò ma dispose le cose in altro modo». Luigi Campoluongo ha mani nodose e vene sporgenti. Oggi ha 79 anni e porta lo stesso nome e cognome dell’uomo che dispose il terzo rito, il 22 maggio ’67. Il rione Sanità, dove Totò era nato, sentiva il dovere dell’omaggio e il diritto di prendersi la scena. E nonno Luigi al rione Sanità non era uno qualunque. «Si era conquistato un ruolo». Tecnicamente: il guappo. Vent'anni prima ne L’oro di Napoli Giuseppe Marotta aveva a modo suo tracciato il perimetro della figura. «Il guappo» scrisse «era un criminale e non lo era. Più che mettersi fuori dalla legge egli le opponeva una sua legge. Era cavalleresco e talvolta eroico. Si rendeva utile alla sua città e temeva Iddio. Avrebbe digiunato, e perfino lavorato piuttosto che macchiarsi di un furto o una rapina [...]. Era esente, in tram, dall'obbligo di munirsi del biglietto». La canzone napoletana ne aveva già celebrato la capacità di rinunciare al cuore di legno per amore di una donna, fino magari a rendersi ridicolo: ’O guappo ‘nnammurato di Raffaele Viviani (1910), ’A serenata ’e Pullecenella (1912) e Guapparia (1914) di Libero Bovio. La sceneggiata gli avrebbe poi consegnato il ruolo del cattivo: ’o malamente.

Insomma don Luigi Campoluongo, a quel tempo, esercitava.

«In genere veniva chiamato a sanare le contese. Un paciere. Se una ragazza restava incinta e il fidanzato non intendeva sposarla, i parenti di lei chiedevano di ristabilire la giustizia. Il nonno allora chiamava il ragazzo, gli faceva capire che stava sbagliando, lo convinceva, e in caso di indigenza ne finanziava pure l’operazione di accomodamento». Era stata proprio una questione di donne a favorire il primo contatto con un Totò ventenne, un ragazzo che portava il cognome della madre (Anna Clemente) e non ancora riconosciuto come figlio naturale dal marchese De Curtis. Questo giovane che mammà voleva sacerdote e che cominciava a esibirsi in qualche varietà, si era invaghito di una ragazza in via dei Cristallini. «Il nome non si può fare neppure adesso. Lasciamo stare. Ci sono i figli, i nipoti...». Totò non era tipo da nascondersi. Solo che la ragazza era promessa, e il futuro sposo si sentì ferito nell’onore. La leggenda racconta di una spedizione partita per una “imparata di creanza” e di un Totò dalla reazione sorprendente, tanto che uno dei gaglioffi se ne tornò a casa con dei cerotti sulla faccia. La cosa giunse all’orecchio del guappo che volle conoscere il coraggioso ragazzotto.

«Quando poi Totò diventò famoso, mio nonno chiese di incontrarlo attraverso Goffredo Lombardo, fondatore della Titanus. Il nonno era diventato amico di molti artisti». Che accettavano in segno di rispetto di partecipare nel mese di luglio alla festa del Monacone. Parentesi. Il Monacone è San Vincenzo Ferrer, frate domenicano spagnolo che si ritaglia fra ‘600 e ‘800 un posto centrale nel culto dei napoletani, rivaleggiando con San Gennaro, forte dell’impresa di aver fermato un’epidemia di colera: da allora è fra i 52 patroni della città. La Sanità è da sempre territorio suo. Ha una piazza, una statua nella basilica, la devozione del popolo. Don Luigi Campoluongo apparteneva a un’associazione che organizzava la festa per il santo. «Ero il solo in famiglia ad avere la patente» racconta Campoluongo nipote, «guidavo una Fiat 1.100 103. Ricordo ancora la targa: 92403. Il nonno mi mandava all’hotel Royal, o al Vesuvio, dove soggiornavano gli artisti. Io li accompagnavo a Capodimonte, fino all’ascensore che porta giù al rione Sanità. Il palco era montato proprio lì sotto, in piazza. Dal ponte facevo un segno con un fazzoletto: arrivano. Quando si aprivano le porte dell’ascensore, spuntavano i cantanti: Celentano, Modugno, sono venuti tutti». Venne pure Totò, che nel frattempo ai Campoluongo si era affezionato. Un altro Luigi con lo stesso cognome era figlio di Ciro, fratello del guappo. Pure lui si dava da fare per le sorti del Monacone. Il guappo commerciava legname all’ingrosso, l’altro Luigi aveva un mobilificio. Troppo simili. Così, per non confondersi, il secondo fece cadere all’anagrafe la u dal cognome. Gino Campolongo è oggi il discendente di questo secondo ramo. Fa l’architetto e aveva due anni nel giorno del finto funerale: «Mio zio spedì un invito alla signora Liliana de Curtis, che era in prima fila davanti alla bara vuota. Per anni ci siamo incontrati al cimitero sulla tomba di suo padre. Ogni volta che invece il mio andava a Roma, restava a dormire ospite in casa di Totò».

Si distinguevano, i due Luigi, perché il primo del guappo aveva pure il soprannome. Naso ’e cane. «Il nonno niente raccontava di sé e nulla voleva si dicesse. Si sapeva che era stato morso da un cane». Un’altra versione attribuisce la ferocia a un certo Martino ‘o Camparo, un Tyson prima di Tyson. Comunque sia, Naso ’e cane, «che era quasi analfabeta», si raccomandò con gli eredi: voi la vita mia non la dovete fare. «Ebbe 5 figli, 3 femmine e 2 maschi. Da Vincenzo sono nato io e ho avuto la vita diversa che per noi sognava. Ho lavorato in uno studio di commercialista. Portare il suo cognome mi ha dato più rispetto che fastidi. Con i miei genitori abitavo al secondo piano, lui al piano terra in un basso, ma un basso di un certo livello. Ogni mattina, prima di uscire, mi lasciava venti lire sulla colonnina del comò: andavo a spendermele in caramelle e per comprare certe pistolette di piombo che sparavano acqua. Un giorno Totò gli disse: Luigi, vorrei farti un regalo. Mio nonno gli chiese una foto con la dedica. Deve trovarsi in casa di una mia zia».

Sono rari gli scatti dei funerali di Totò, strano per un uomo di quella popolarità. «Quando tornava a Napoli» racconta Campoluongo, «voleva rivedere il suo quartiere. Mio nonno lo faceva accompagnare da certi amici per le strade della Sanità, mai prima delle tre di notte, altrimenti la gente non lo avrebbe lasciato in pace. Una sera andammo al teatro San Ferdinando per invitare Eduardo alla festa. Lui spiegò: «A luglio sto in Russia, ma se il padreterno mi fa la grazia di far atterrare l’aereo, torno e vengo». Luigi Campoluongo con il suo soprannome sarebbe diventato il riferimento per la costruzione del personaggio di Antonio Barracano, il sindaco del rione Sanità. Di lui Eduardo disse: «Era un pezzo d’uomo bruno. Teneva il quartiere in ordine. Questi Campoluongo non facevano la camorra, vivevano del loro mestiere. Veniva a tutte le prime in camerino. “Disturbo?” chiedeva. Si metteva seduto, sempre con la mano sul bastone. “Volete ‘na tazza ‘e cafè?”. Lui rispondeva “Volentieri”. Poi se ne andava».

Pasquale Squitieri, altro napoletano del rione Sanità, raccontò che il guappo non aveva ricchezze ma era potente. «Pagavamo e avevamo la garanzia che nulla ci potesse accadere. Poi la camorra si è trasformata in un potere economico legato al business della droga». Ecco che il nipote Luigi si lamenta «di una società che non esiste più, di un rione che non esiste più, io non ci vado quasi mai, non lo riconosco». A febbraio da uno scooter hanno sparato alle vetrine di Poppella, tarallificio e panetteria aperta negli anni Venti. Ai muri del rione la gente ha incollato manifesti con cui chiede di non essere lasciata sola, chiede di non dimenticare le promesse per un museo da dedicare all’attore: «Totò non può morire una seconda volta». Ma alla Sanità la morte è ovunque, la morte è una compagna. Sotto i piedi di chi passeggia, si sdraiano le catacombe paleocristiane e il cimitero delle fontanelle. Una lapide ricorda Totò sul suo palazzo in via Santa Maria Antesaecula e un busto è ai Vergini. Due giorni prima dell’infarto, aveva voluto ascoltare il suo disco in uscita: uno sketch con Castellani più la poesia ‘A Livella. All’autista aveva detto che non gli piaceva. «Ma è la vostra poesia preferita», aveva ribattuto Carlo. «Che ti devo dire? Non mi piace più». Poi aveva fatto in tempo a girare il primo ciak del nuovo film, Il padre di famiglia, in un ruolo dopo passato a Tognazzi. La scena era quella di un funerale.

(Il Venerdì, 7 aprile 2017)

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