venerdì 23 giugno 2017

Nino D'Angelo, quel sessantenne della curva B


Gaetano D’Angelo e per il mondo Nino, di anni sessanta fra cinque giorni, è un uomo convinto che per il suo compleanno il regalo perfetto sia incidere un disco con “i maggiori insuccessi della carriera”. «Perché io, dentro, sono rimasto sempre uguale». Lo fa per davvero: nel cofanetto pure un cd di inediti e il dvd del concerto che sabato 24 terrà allo stadio San Paolo. «È il posto dove negli ultimi trent’anni la città di Napoli è stata più felice». Ne sono passati trenta anche da una delle sue canzoni più famose, Quel ragazzo della curva B, l’inno dei tifosi di calcio. Il palco sarà proprio davanti alla curva, ventimila persone, «tre generazioni che volevo unire per una festa verace, nonni, nipoti, non sapevo dove farla. Il sindaco de Magistris ha tirato fuori l’idea, però ho pagato tutto io. Per i miei quarant’anni Bassolino ebbe un’intuizione e cantai a Scampia, in piazza, dove si aggregò tutta la periferia. Per i cinquanta feci una cosa più intima, al teatro Trianon, che mi avevano chiamato a rilanciare. I sessanta sono un traguardo più pesante: allora mi sono allargato».

Solo cantanti napoletani tra gli invitati. Rais, Brunella Selo, Maria Nazionale. «Una serata di orgoglio con il mio mondo, per andare oltre l’idea che esista solo Gomorra», questo sarà “Concerto 6.0” per il papà dei neo melodici, il ragazzo che con un caschetto biondo negli anni 80 al cinema faceva tremare pure Flashdance. «I miei film erano di serie B ma davano da mangiare a tante famiglie. Oggi vedo un sacco di gente che ne fa di serie A ma i soldi non li distribuisce, li ruba, e per la verità i film fanno pure schifo. I miei forse erano sentimentali, venivano considerati dei sottoprodotti, come i fotoromanzi, ma dentro c’era un’innocenza perduta. Mi pare che esistano solo persone pronte a camminarti addosso».

Il Nino sessantenne fa i conti con i rimpianti. «Ho avuto i miei pregi sempre e i miei difetti a ogni età. Mi sono evoluto nella musica, nelle conoscenze, nell’amore per la contaminazione di un percorso inizialmente legato alla tradizione napoletana e alla sua resa in chiave pop. Ho scoperto i suoni del Mediterraneo, sono diventato autore di canzoni sociali, ma sono stato un padre assente. Il lavoro mi ha portato in giro per il mondo. Non ho accompagnato i miei figli a scuola, non ho visto le loro recite, le loro partite di pallone. Ho scoperto tardi che esisteva anche questo e che lo avevo perso. Il successo acceca, mi ha rubato la bellezza, costringe a vivere con la paura che possa finire. È una sensazione terribile. Si diventa ricchi ma ci si impoverisce».

San Pietro a Patierno, periferia nord-est di Napoli, stretta tra Secondigliano e Capodichino, una delle zone più tormentate dal terremoto del 1980. «Desideravo la vita agiata perché ero incazzato con la povertà. Ne avevo fatto il pieno da bambino. Inconsapevolmente. Io all’inizio nemmeno lo sapevo, di essere povero. Eravamo figli del sottoproletariato, eravamo i poveri dei poveri. Ma l’ho scoperto per colpa del prete del quartiere, un sacerdote vecchio stampo, di quelli che recuperano i ragazzi dalla strada e li trascinano in oratorio. Mi portava con lui a benedire le case nella settimana prima di Pasqua. Gli reggevo l’acquasantiera, i fedeli lasciavano le loro offerte in un vassoio, gli spiccioli poi venivano raccolti in una busta di plastica. “Dove li metto?”, domandai al prete quando tornammo in sacrestia. “Portali a casa tua” rispose. Mi spaventò. Pensai di avere a che fare con un disonesto, pensai di avere di fronte a me un mariuolo. “Padre”, gli dissi allora scandalizzato, “ma non si può, è peccato: questi soldi sono per i poveri”. E allora lui fu gelido: “Perché tu cosa sei?”. Una verità che mi uccise. Tornai a casa con questo sacchetto pieno di monete e gridai contro mio padre: “Perché non mi hai mai detto che siamo poveri?”. A casa facevano sacrifici immensi per nasconderlo a noi figli e io mi ribellavo. Mio padre rispose: “Se non ti piace, vattene a vivere da solo con i soldi che ti ha dato il prete”. Non l’ho scordato più. Oggi lo capisco».

Trentasette album, cinque festival di Sanremo, un David di Donatello e un Nastro d’argento. Ha cantato all’Olympia di Parigi mentre la città borghese si vergognava di lui. «Ho fatto il cantante per riscattarmi dalla sottocultura in cui ero cresciuto. Ho cominciato a scrivere canzoni sociali per dare qualcosa a chi veniva a sentirmi, e dalla cultura era respinto. Perciò dico che sono rimasto un cantante del popolo, per questo faccio una vita semplice. Non ho bisogno della barca o di terreni, ho bisogno delle persone e delle idee. Mi piacciono le belle teste, gli incontri interessanti, quelli che si battono contro le ingiustizie. Ho smesso di credere ai politici. Quando ero ragazzo, il partito non te lo sceglievi. Era lo stesso per cui votava tuo nonno. A casa mia erano tutti comunisti. Mio nonno, mio padre, e alla fine pure io. Avevamo una foto di Berlinguer. È un po’ come per le squadre di calcio. Per fortuna mio nonno era pure malato del Napoli. Del Napoli e di Gimondi». Nino D’Angelo recita a memoria la formazione anni ’60, dall’uno al numero undici: «Bandoni, Nardin, Miceli, Ronzon, Panzanato, Bianchi, Cané, Juliano, Altafini, Sivori, Orlando. Allo stadio andavo con il fratello di mia madre: lo zio più giovane. I miei campioni erano Juliano e Altafini, che ci tradì come poi Higuaín. Non so se il 24 giugno verrà Maradona. È la mia festa, con lui sarebbe diventato un evento esagerato: non lo so, magari mi fa una sorpresa e si presenta lo stesso…».

Papà operaio, mamma casalinga. Si racconta che il discografico più in vista della città fosse corso da lei disperato, quando Nino passò in studio a fargli ascoltare ‘Nu jeans e ‘na maglietta. Le disse: «Signo’, vi avverto, state attenta a vostro figlio: sta perdendo ‘a cervella». «Gli idoli musicali in casa mia erano tanti e diversi. Mio nonno amava Mario Abbate, papà preferiva Franco Ricci, io mi ero scelto uno che stava antipatico a tutti quanti, Sergio Bruni, il più grande dal 1950 a oggi. Mamma impazziva per Giacomo Rondinella, che a Napoli chiamavano ’o chiagnazzaro, cioè il piagnone, il lamentoso, per quel suo modo di cantare addolorato. Una volta, in pieni anni Ottanta, Rondinella l’ho incontrato in America. Era venuto a sentire un mio spettacolo. Alla fine entrò in camerino, s’avvicinò e disse: “Azz’, guagliò, e se a me mi chiamavano ‘o chiagnazzaro, tu allora che ssì?”. Ma si cantava così. Si piangeva».

I figli di Nino non hanno mai cantato. «Non li ho mai incoraggiati, anzi, avevo paura che si avvicinassero al mio mondo. Toni fa il regista, Vincenzo è giornalista, a loro sono sempre piaciuti gli U2 e gli Iron Maiden. Ma sono borghesi, hanno fatto le scuole private, sono cresciuti nell’agio, non hanno mai conosciuto i desideri. Desiderare è una bella condizione. Quando non si desidera più, si cade in depressione». Non è una parola che usa a caso. «Non mi spaventa». Nino ha combattuto cinque anni contro “il cane nero”. «Il successo, i soldi, tutto ridarei indietro per averne di nuovo venti, per riavere il Natale con i miei, per rivedere mia madre, mio padre, certi amici che si sono persi strada facendo». Com’erano belli i vent’anni di Nino. «Essere amici, avere amici: c’era un rapporto di carnalità. Era come essere fratelli. Oggi invece tutti si dicono amici, ma nessuno viene più a dormire a casa tua».

(il Venerdì, 16 giugno 2017)

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