venerdì 21 luglio 2017

Borg-McEnroe non finisce mai


Alle sei e undici minuti del pomeriggio, ora di Londra, il 5 luglio 1980, Björn Borg si inginocchiò sul prato di Wimbledon per festeggiare il titolo come già aveva fatto l’anno prima, l’altro ancora, e pure i due avanti a quelli. John McEnroe invece mise il broncio e uscì dal campo da sconfitto, sapendo che nessuno avrebbe mai più dimenticato ciò che aveva visto, e che quando ci si scontra a quel modo con un avversario, si rimane uniti per sempre. «Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì» scrisse Gianni Clerici. Ora la partita più famosa di tutti i tempi finisce al cinema, forse per riscattare la convinzione secondo cui è impossibile fare un bel film sul tennis. L’erba alta non più di otto millimetri, le fragole con la panna, l’obbligo di vestirsi di bianco, le code notturne per un biglietto, e poi quei due: il biondo con i capelli lunghi, l’americano tutto riccioli e nervi. La rivalità più accesa e celebre di questo sport splendido e diabolico, che siamo chiamati a giocare prima che su un campo dentro la nostra testa.

Due teste più distanti di queste non sono mai esistite nello sport. Due menti, due stili di gioco, due storie. In sostanza due archetipi. Il conflitto perfetto, deve aver pensato trentasette anni dopo Janus Metz Pedersen, il danese al quale tempo fa hanno affidato la direzione di un episodio della seconda stagione di True Detective, adesso regista dell’atteso Borg/McEnroe, in uscita in Italia il 9 novembre. Sverrir Gudnason è nei panni di Borg, il ragazzo dai gesti polari, glaciale, distante, inalterabile. La parte di McEnroe è per Shia LaBeouf, non meno estremo nella vita del suo personaggio, irascibile, rissoso, strafottente, provocatore. Di questo dualismo tanto si sa e tanto s’è detto. Solo che adesso il cinema lo porta fuori dalla platea sportiva e lo dilata.

Borg e McEnroe erano divergenti, ognuno la risposta all’altro. Il primo, svedese, senza una vera cultura né tradizione tennistica alle spalle nel suo Paese, era sbucato da un piano didattico di diffusione dello sport nelle scuole, voluto dalla socialdemocrazia andata al governo. Giunse tra noi, più o meno insieme allo sciatore Stenmark e alle canzoni degli Abba, a prometterci che la Svezia non sarebbe stata più un argomento a cena nelle case della upper class, non era più soltanto Ingmar Bergman e Olof Palme. La Svezia con Borg diventava pop. L’altro, newyorchese, era invece l’ultimo frutto della stessa terra di Tilden, Budge e Kramer. Un patrimonio genetico nazionale da campione. Un regolarista da una parte, con la sua ripetitività ossessiva da fondo campo, quasi robotica, alla ricerca dell’errore altrui; un fantasista dall’altra, una mano sinistra baciata dagli dei, un interprete sontuoso del più classico fra gli stili di gioco, la battuta e la discesa a rete. Eppure – bisognerà saperlo prima di andare a sederci al buio in sala – ciascuno a modo suo un eretico.

McEnroe stava accompagnando il gioco di volo dall’età della leggerezza a quella dell’energia. Il tocco sotto rete non sarebbe stato più una carezza possibile solo con un piumino per cipria. McEnroe, le sue volée, iniziava a spingerle. Si era assunto il compito di iniettare l’energia del futuro dentro i gesti del passato, rivoluzionando pure condotte e atteggiamenti in campo. Insultava arbitri e avversari, sfasciava racchette, avrebbe gridato sul muso di un giudice la frase «You cannot be serious», non puoi dire sul serio. Viveva ogni chiamata dubbia come una bestemmia contro dio, e non c’era altro dio al di fuori di lui. Era per tutti «il monello», per gli indignati tabloid inglesi «un moccioso».

Borg era persino più innovatore, ma per altri versi. In campo era diventato un riferimento assoluto imponendo al mondo l’uso del top spin (la palla colpita dal basso verso l’alto con un movimento di polso) e il rovescio a due mani. Borg era il Concilio Vaticano II nella immutabile chiesa del tennis. Come se non bastasse la rivoluzione tecnica, ne fece anche lui una seconda estetica. Fu il primo a intuire che sull’erba servivano scarpe differenti da quelle da sempre indossate, impose una suola difforme, facendo la fortuna di un’azienda trevigiana fino a quel momento specializzata in scarponi da montagna, la Diadora. Aveva capelli lunghi legati da una scia, una magliettina attillata, all’epoca made in Italy pure quella: Fila oggi è di proprietà coreana. Diventò il primo a portare le teenager sui campi da tennis, a farle urlare, a mettere sul fuoco una pentola in cui bolliva eccitazione, si presentò come una scossa sexy in una gita della parrocchia. Il tennis in televisione è arrivato perché tutti potessero vedere Borg. E le palline gialle, nel tennis, sono arrivate perché quella partita del 5 luglio 1980 fece capire a quel mondo di conservatori che, se volevano stare in tv, ecco, allora in tv le palline bianche non si riuscivano a vedere.

L’eleganza contro la concretezza. Un conflitto esemplare, più di Coppi-Bartali, di Ali-Frazier e dell’Hunt-Lauda visto in Rush. Borg generò un mucchio di imitatori, di McEnroe si è sempre riconosciuta l’unicità. Unico pure nell’accogliere la notizia che un film avrebbe indagato dentro le loro vite, circostanza che deve averlo inquietato non poco alla vigilia dell’uscita della sua seconda autobiografia. Andrew Anthony, nel recensirla l’altra settimana per The Observer, si è chiesto perché dovrebbe interessarci qualcosa delle sue partite tra vecchie glorie: «Quante vite meritano due libri?». McEnroe risponderebbe: la mia. Con Vanity Fair s’è sfogato all’inizio delle riprese: «Non so se hanno intenzione di girare tutto il film senza venire a parlarmi, forse non gli interessa, non credo che sia possibile. LaBeouf mi pare una buona scelta: molti gli danno del matto, allora dovrebbe funzionare. Anche se non ricordo un solo film di tennis ben riuscito. Sono tutti orribili». La commedia romantica Wimbledon, con Paul Bettany e Kirsten Dunst, ebbe Pat Cash come controfigura perché non è semplice insegnare a un attore come stare in campo e colpire la palla, mentre in Match point di Woody Allen il tennis era lo sfondo non l’argomento.

Questo Borg/McEnroe, come dice il suo regista, «è una storia che ci mostra come un’icona diventa la maschera che la gente vuole che sia, cosa c’è dietro quella maschera, qual è il prezzo da pagare per portarla». Il prezzo. Avremmo scoperto che John era molto più dolce fuori dal campo, e che Borg era insospettabilmente irrequieto, schiavo di festini e della vita notturna. «È anche un film su due ragazzi che combattono l’amicizia, nella consapevolezza però che il giocatore dall’altra parte della rete, il peggior nemico, il peggior rivale, è anche il solo a comprendere cosa entrambi stiano passando». Per Ronnie Sandahl, lo sceneggiatore, «non si tratta di un film sul tennis, ma di un dramma personale ambientato nel tennis».

Un anno e due mesi dopo quel Wimbledon, persa la finale di New York, Björn strinse la mano a John, tornò negli spogliatoi, prese la borsa, uscì da una porta laterale, salì su un taxi e se ne andò dal tennis. Senza avvertire nessuno, come del resto aveva fatto nel suo mondo Greta Garbo, stessa zona di origine a Stoccolma. «La decisione di Borg di ritirarsi è stato il più grande dolore della mia carriera» commentò allora McEnroe. Pregò la moglie dello svedese di convincerlo a ripensarci. Ne aveva bisogno lui. Rivali, opposti e uguali. Due facce di una cosa sola. Uniti da quella partita lì.

(uscito su Il Venerdì, 14 luglio 2017)

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