venerdì 11 agosto 2017

Gli orizzonti di Simone Inzaghi

Dopo il debutto in serie A, il 14 settembre del '98, di lui Gianni Mura scrive: "Credo che non sarà una meteora". Non lo è stato. Quasi vent'anni dopo, Simone Inzaghi è dentro una stanza di Formello a preparare la Supercoppa di domenica, una lavagna alle spalle, i magneti blu che marcano i rossi, la caccia al primo titolo da allenatore dopo i sette da calciatore, tutti con la stessa maglia della Lazio, dov'è arrivato 18 anni fa senza andarsene. "Eppure non saprei spiegare cos'è la lazialità a chi viene da fuori e non conosce Roma. Io vivo ai Parioli, che è come dire nel cuore di questo sentimento. Forse ho capito fino in fondo la malattia del tifo quest'anno, dopo tre derby vinti, una felicità che m'è parsa più grande di quella per scudetto e Coppe".

Questa dissipazione di energie per il derby non le pare un limite?
"Un poco sì. Ma Roma è questa. È sempre stata così e non cambierà. Andavamo in casa del Sassuolo e i tifosi in strada mi chiedevano di far giocare la Primavera, per risparmiare i titolari per il derby. Lo so, non si può capire. Dopo vent'anni ci riesco".

Chi le ha messo il calcio in testa?
"Papà portava Pippo e me allo stadio, il Piacenza era in C1, cinque chilometri in macchina da casa, e a noi pareva di andare a vedere il Real Madrid. Quando potemmo fare una foto con Mulinacci, il numero 9, ci parve di abbracciare Di Stefano. Con Pippo c'erano queste lunghe sfide nel cortile di nonno Gino, o in mansarda, scalzi, con una palla fatta di calze arrotolate. Un giorno entrai duro e gli ruppi un dito del piede, lui era nelle giovanili del Piacenza: raccontammo che era caduto dalle scale".

Ha in cornice il diploma da ragioniere o quello di Coverciano?
"In cornice ho solo la maglia con cui feci 4 gol al Marsiglia, nel 2000. È quella la mia laurea. Il primo a esserci riuscito in Champions. La sera in cui ne vidi fare 4 a Messi in un'ora contro il Leverkusen, iniziai a pregare Guardiola davanti alla tv: toglilo, toglilo, fallo riposare. Segnò il quinto a 3' dalla fine. Pippo a La Coruña ne aveva fatti tre, più una traversa all'85'. Così sono almeno rimasto l'unico italiano".

Cosa le ha insegnato il calcio più della scuola?
"L'autonomia. A cavarmela da solo. A 17 anni sono andato via di casa, prima Carpi, poi Novara, Lumezzane, e tutto ha smesso di essere facile. Non giocavo nemmeno tanto, e se giocavo prendevo botte. Avevo offerte da Atalanta, Inter, Milan. Mia madre invece era convinta che mi facesse bene, meglio cominciare così, tanto se devi arrivare, disse, arrivi lo stesso. Una profezia".

È più pesante l'ombra della maglia di Chinaglia o la panchina di Maestrelli?
"Il peso di una maglia lo dividi con altri venti compagni. Un allenatore è sempre un uomo solo, ed è pure responsabile dello staff, della squadra, delle aspettative della folla. Io credo che tutti abbiamo un destino. Nel mio c'era la Lazio, forse fin da quando le ho segnato da avversario il mio primo gol in serie A. Non conosco Bielsa, non l'ho mai visto né sentito, ma dopo le sette partite finali del 2016, sapevo che la panchina era mia. Aspettavo solo la chiamata di Lotito, sentivo che sarebbe arrivata anche quando nel frattempo si parlava di Bielsa".

I calciatori sono molto cambiati in 20 anni. A cosa le serve la sua esperienza?
"A Coverciano insegnano che non si devono spiegare ai giocatori le scelte fino in fondo. Io faccio il contrario. Ne ho avuti di allenatori che mi raccontavano frottole per lasciarmi fuori. Non lo sopportavo e non lo faccio. Le bugie non portano lontano. In questo almeno il calcio non cambia mai".

Come si parla a un calciatore che vuole andar via?
"Se vogliono andar via è sempre più difficile convincerli a restare. Con Biglia ho parlato, e pure tanto. Mi è dispiaciuto vederlo partire, ma alla fine se in un posto non rimani volentieri è meglio salutarsi, più giusto per tutti, anche se fa male. Con Keita non so come andrà a finire, ma fino a quando sarà della Lazio giocherà per la Lazio".

Anche domenica contro la sua prossima squadra?
"Io non ho imbarazzi nel metterlo in campo contro la Juventus. L'imbarazzo dovrebbe provarlo chi consente a un calciatore di giocare due partite in un posto, salutare e andar via. È diventata quasi un'abitudine, ci stiamo rassegnando. L'errore non è avere Keita sul mercato il 10 agosto, l'errore è che il 10 agosto il mercato sia ancora aperto. Alle partite ufficiali bisognerebbe arrivare con le squadre definite e con le trattative chiuse. Se non è possibile chiudere il 31 luglio, almeno il 10 agosto. L'ho già detto, e non sono il solo a pensarlo".

Si è più credibili con i calciatori dopo una carriera rigorosa a base di bresaola o se hai commesso qualche sbaglio?
"Io sono stato un professionista serio ma ho fatto pure qualche stupidaggine, tipo un rigore tirato con uno scavino sul 3-0 al 90'. Oggi so che non c'è bisogno di umiliare un portiere avversario e l'altra squadra, e ai giovani lo dico. Così come ai più anziani ripeto ogni giorno di godersi tutto fino in fondo, gli ultimi anni, queste sensazioni che non torneranno più e che nessuno restituirà quando tutto sarà finito".

Pare un rimpianto.
"È proprio così. Dai 28 ai 33 sono gli anni più belli per un calciatore. Senti il tempo che passa, lo assapori, andrebbe vissuto tutto. Io ebbi problemi alla schiena che mi tolsero questo gusto. Non mi sono goduto l'addio ed è ancora un tormento".

È sotto l'effetto dell'addio di Totti?
"È stata una serata molto toccante per chi ama il calcio e meravigliosa per un campione. Credo che una cerimonia così l'avrebbero meritata anche mio fratello al Milan e Del Piero alla Juventus. Ma i romani sono romani. Questa è una città che vive il calcio in modo unico".

E lei come protegge i suoi figli dagli eccessi o dal loro cognome?
"Tommaso ha 16 anni e andrà a finire gli studi a Londra. È grande, maturo, ha anche una madre famosa (l'attrice Alessia Marcuzzi, ndr). Sa che non deve farsi illusioni né cadere in certi tranelli. Lorenzo ne ha 4. Ho avuto la fortuna di incontrare Gaia, sua madre, quando ho smesso di giocare. È lei che gli spiega per bene perché a Sabaudia, sotto l'ombrellone, arrivino persone che vogliono farsi una foto col papà: sa chi sono, cosa faccio e perché lo porto sul prato a fare gol".

Quanto ha lavorato per parlare della sua famiglia allargata con tanta gioia?
"Per me non è stato naturale. Ho sofferto, ne ho risentito anche in campo. Alessia ora vive a pochi metri da noi ed è una delle migliori amiche di Gaia. Vengo da una famiglia tradizionale. Mio padre e mia madre hanno passato una vita insieme, non è stato semplice fargli digerire quanto succedeva. Mi sono stati vicini. Hanno conservato un ottimo rapporto con i genitori di Alessia, hanno cucito la famiglia; una famiglia diversa da quella a cui eravamo abituati a San Nicolò, e ora ci concediamo tutti assieme meravigliosi giorni di Natale, allargatissimi e felici".

Il 17 ottobre del 2003 lei dice: Occorre la moviola in campo.
"Non ho cambiato idea, specialmente dopo i tre rigori negati a Genova e l'espulsione di Keita con l'Inter. Penso che il Var è meglio ci sia. Può togliere la sensazione di sentirsi derubati, e pensarci, ripensarci, parlarne, riparlarne. L'importante è che i tempi siano stretti, 25 secondi al massimo, non possiamo fermarci minuti a guardare i video. Il calcio va giocato".

Come si combatte il calcio dei ricchi?
"Aspetteremo 30 o 40 anni per avere un altro Leicester e non spunterà in Italia. O si alzano gli introiti di tutti, e gli stadi di proprietà possono essere un fattore, oppure in un campionato di 38-40 partite vinceranno sempre le stesse".

In una partita sola invece?
"Si dice che tutto può succedere, non sempre si aggiunge che succede solo se gli sfavoriti giocano una grande partita. E gli sfavoriti domenica siamo noi. Senza Bonucci la Juve ha perso qualcosa: mi secca solo che sia andato al Milan, a rinforzare una squadra arrivata l'anno scorso dietro di noi. Ma queste partite sono belle da giocare pure così, rincorrendo e sperando di ribaltarle".

(Repubblica, 10 agosto 2017)

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