mercoledì 26 dicembre 2018

Il Progetto Utopia del Cagliari

È qui che bisogna posare lo sguardo al termine del giro nell'Italia da ritrovare, a Cagliari, dove per la prima volta dopo 67 campionati – era il 1970 si fermò uno scudetto al Sud. «La vittoria di una minoranza» scrisse Arpino, che «ha ridato lustro a una dignità che poteva essere solo privata». Era il Cagliari di Riva detto da Brera Rombo di tuono, era una Serie A che fra il '69 e il '91 distribuiva scudetti a 11 squadre differenti: per cinque di loro era il primo, per sei fu pure l'ultimo. Trovarono condizioni oggi negate, tanto da far dire a Giuseppe Tomasini, 72 anni, all'epoca dello scudetto difensore, che «questo è un calcio da fine del mondo. Se tutto è deciso a dicembre, non lo guardo più. I club erano proprietari dei cartellini, otto di noi si sono fermati a vivere in Sardegna, oggi i procuratori ti spingono a cambiare. Non bisognerebbe scriverne nelle pagine di sport ma in quelle di economia. Mezza Italia è tagliata fuori».

sabato 15 dicembre 2018

I piani di Gazidis per il Milan

Se avesse 100 milioni pronti, Ivan Gazidis non andrebbe a comprarsi Ronaldo, li spenderebbe per uno stadio nuovo, e infatti lo farà. Primo: perché un altro Ronaldo non c'è. Secondo: perché per prendere la Juve, serve una visione. Da cinque giorni a.d. del Milan, il manager venuto dall'Arsenal ha dato una sterzata ai piani. La ristrutturazione di San Siro annunciata poche settimane fa è ora un piano B, perché non sarebbe semplice utilizzarlo durante i lavori con una capienza ridotta a 40mila posti. Il Milan ipotizza una casa nuova, anche questa non solo per sé. Il peso dell'investimento è da dividere con l'Inter, insieme con i naming rights e le sponsorizzazioni. Sono già fissati nuovi appuntamenti con il Comune per definire un'area, con l'intenzione di non finire nella palude che tiene la Roma prigioniera del suo progetto. Gazidis considera San Siro un'icona del calcio, ma nei suoi piani il nuovo stadio può diventare un'icona della città.
Dovrebbe nascere a sud, intorno a Rogoredo oppure a Baggio. È questo il muro portante che regge l'architettura della sua sfida al pessimismo italiano, per il rilancio del Milan, o come la chiama lui: rigenerazione. Crescita dei ricavi, sostenibilità, autosufficienza economica, in attesa del verdetto Uefa sul fair play finanziario. Gazidis sa di essersi preso un rischio arrivando in Serie A. È uscito dalla sua comfort zone, dovrà mettersi a studiare la lingua italiana e la nostra cultura calcistica, conscio che potrebbe toccargli l'impopolarità per dover reinventare un club con tanta eredità e tanto passato.
Depersonalizzare il Milan, portarlo fuori dall'ombra di Berlusconi è già una grossa sfida.

mercoledì 12 dicembre 2018

L'amica geniale in tv, intervista a Elena Ferrante


Dopo dieci milioni di copie vendute in 40 paesi al mondo proteggendo il mistero sull’identità di Elena Ferrante, sulla copertina della nuova edizione Lila e Lenù hanno il volto di due attrici bambine. È il sublime paradosso con cui L’Amica Geniale entra in una nuova dimensione. La tetralogia è diventata una serie tv in otto episodi, i primi due in anteprima all’ultima Mostra di Venezia e al cinema per tre giorni la scorsa settimana, prima di arrivare dal 30 ottobre su Rai1, Ray Play e Tim Vision. Un casting di otto mesi fra novemila partecipanti ha individuato le protagoniste nell’età dell’infanzia in Ludovica Nasti ed Elisa Del Genio, debuttanti, due dodicenni della provincia napoletana. A distanza, nell’ombra in cui ha deciso di vivere la sua condizione letteraria, Elena Ferrante ha seguito la scelta delle attrici e la scrittura della sceneggiatura, a cura di Laura Paolucci, Francesco Piccolo e Saverio Costanzo, che del film per Hbo-Rai Fiction e Timvision è pure il regista (altra scelta suggerita dalla scrittrice), con la produzione di Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside e da Domenico Procacci per Fandango. La voce narrante fuori campo è di Alba Rohrwacher. È una dimensione nuova per la stessa Ferrante, che via mail racconta al Venerdì il suo incontro con il cinema.

Quando nel 1994 Mario Martone preparava la sceneggiatura dall'Amore Molesto, lei scrisse: "Temo di vedere ciò che ho veramente raccontato e disgustarmene; o scoprirne invece la debolezza; o anche semplicemente accorgermi di ciò che manca". Anche stavolta ha temuto di
vivere le stesse sensazioni?
“Sì. Ma oggi è una condizione a cui mi espongo consapevolmente, con ansia, certo, ma anche con curiosità. Una volta, quando si parlava di un film nato da un libro, si usava dire: “riduzione cinematografica”. Oggi non so se questa formula è ancora diffusa, probabilmente no, dà un’idea (sbagliata) di prodotto minore.  Ma di quella espressione ciò che ancora mi interessa è l’idea di movimento: grazie a un certo tipo di lettura specialistica (quella degli sceneggiatori, quella del regista) il romanzo passa dalla pagina allo schermo e nel corso di questo movimento perde la veste letteraria, si denuda. È questa nudità che mi mette ansia e insieme mi interessa.  La lettura di chi fa film è l’unica, forse, che ha l’obbligo di ‘spogliare’ il racconto e prendergli le misure per dargli un abito nuovo. Ma il racconto letterario, ‘ridotto’ al racconto per immagini, privato della sua specificità, disorienta, spaventa, forse addirittura umilia chi l’ha scritto. Viene da chiedersi: ‘Questo è il mio libro? Dov’è ciò che mi pareva di aver scritto?’”.

sabato 8 dicembre 2018

Modric, il re provvisorio

Ai calciatori dei Balcani è stata rimproverata spesso una certa sofisticata incostanza. Ora, mentre abbatte la decennale autorità del mostro a due teste Messi-Ronaldo, il Pallone d'oro a Luka Modric ribalta pure quest'ultimo stereotipo. Ha vinto un piede elegante ma regolare, un virtuoso ma non un solista, non un anarchico.
Nell'anno del Mondiale delle sorprese, condannato a ignorare il fantasma di Leo e un Cristiano dall'immagine compromessa per le accuse di stupro dall'America, il calcio è tornato all'antico scegliendo come simbolo di sé un attore classico, un giocatore che cuce e non uno che strappa, un sarto, un camminatore sul confine fra arte e artigianato: tecnica, estro, pregio, eppure tutto il contrario dello sperpero di solito imputato alla sua stirpe, sul podio del premio fin qui rappresentata da genialoidi alla Savicevic e alla Dzajic, oppure da finalizzatori crudi alla Pancev, alla Mijatovic, alla Suker. In un caso o nell'altro, tutta gente che si fermava un passo prima di vincere.

venerdì 7 dicembre 2018

Bello questo tennis, sembra la boxe: le vite eminenti di Codignola

L’uomo che avrebbe cambiato il tennis per sempre non ha mai giocato una partita e pensava che il lavoro più bello del mondo fosse il cronista di baseball. Nove anni fa John Joseph Moehringer prestava ad Andre Agassi la sua abilità nel mettere insieme parole, lanciando verso un successo planetario la biografia Open, senza firmarla (“perché un’ostetrica non torna a casa col bambino”), e il tennis buttava giù l’ultimo diaframma fra sé e la letteratura. Se dopo il premio Pulitzer per un reportage su una comunità fluviale dell’Alabama, questo corrispondente del Los Angeles Times non avesse interrotto un articolo sui discendenti di Cita lo scimpanzé per dedicarsi ai palleggi e ai tormenti del Kid di Las Vegas, forse non ci saremmo mai neppure accorti che David Foster Wallace aveva vissuto Federer come un’esperienza religiosa.

È da quel libro lì, autunno 2009, che non è più possibile dedicarsi al tennis con lo stesso tono di prima. Ne è una nuova testimonianza il lavoro di Matteo Codignola, Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 290 pagine, 22 euro), che ospita in copertina un Jack Kramer ritratto per la pubblicità della Texaco, in pieno stile anni 50, forme arrotondate e viva i pastelli. Codignola è stato il traduttore di uno dei tre libri che meglio decifrano Napoli (Norman Lewis, Napoli ’44), di Patrick McGrath e di Mordecai Richler, ma all’interno di una certa setta è soprattutto l’editor che ha portato in Italia - sempre per Adelphi, 2013 - il libro che Gianni Clerici sosteneva fosse il più bello mai scritto su questo sport, Levels of the Game di John McPhee, nel quale prima sono ricostruiti i meccanismi della mente di un tennista seguendo la semifinale di Forest Hills 1968 fra Ashe e Graebner, e poi vengono descritte vita e lavoro di Robert Twynam, capo giardiniere dell’epoca a Wimbledon. In effetti è un libro chiave per capire il proprio rapporto con il tennis. Si legge e ci si schiera: capolavoro o perversione.

lunedì 3 dicembre 2018

Alle radici di Re Cecconi

La vita che Luciano Re Cecconi avrebbe avuto è tutta dentro un paese costruito in discesa poco fuori Milano, dove ancora abitano sua moglie Cesarina e i figli Stefano e Francesca. «Noi non lo abbiamo mai dimenticato» quasi sussurra Massimo Cozzi, magazziniere di un'azienda di Rho che ha preso l'aspettativa per fare il sindaco a Nerviano. Il Comune è dentro un ex monastero. Cozzi ha un ufficio che dà sul fiume Olona, parcheggia con il disco orario, non ha l'auto di servizio, anzi si sposta in bici e ha tolto il cellulare ai consiglieri. «Ma ora in bilancio ci sono 600mila euro per ristrutturare lo stadio», dice. Il Comunale Re Cecconi, dove fra i dilettanti gioca la Nervianese. Il campo del Luciano bambino è all'oratorio di sant'Ilario. È qui che Re Cecconi festeggerebbe domani 70 anni, senza quel colpo di pistola che un gioielliere gli sparò al petto il 18 gennaio 1977. «Sarebbe stato un allenatore magnifico, aveva etica, competenza, principi saldi», ne è certo Pino Wilson, che di quella Lazio era capitano e leader di una fazione, spogliatoi separati, le risse in allenamento, al cinema, al ristorante, e poi le pistole, un poligono dietro il campo, le luci delle camere in ritiro spente con un proiettile alle lampadine prima di dormire. Luciano detto Cecco stava dall'altra parte. Contro Chinaglia e Wilson, alleato di Martini. Soprannome: il Saggio. Non sparava, non andava al night, non giocava a poker in una Lazio drammaturgicamente perfetta.

sabato 3 novembre 2018

La missione privata della Juve Under 23

Lasciamo perdere le quattro sconfitte in nove partite e il fatto che ci troviamo di fronte alla quinta peggior difesa del campionato. Per una volta la vittoria non è cosa che conti nemmeno in casa Juve, dove al celebre motto della casata abbiamo appreso - sono tenuti a uniformarsi pure i bimbi dell'Under 8. Il punto stavolta è chiedersi quale compito stia assolvendo la Juventus Under 23 in serie C. La premessa è nota. Nella smania di mostrare una svolta dopo i Mondiali falliti, la federcalcio ha partorito la Grande Riforma delle squadre B a imitazione della Spagna. Così - ci siamo sentiti ripetere - i giovani italiani avrebbero avuto un posto in cui giocare e crescere.

venerdì 12 ottobre 2018

Perché il sarrismo è nato proprio a Napoli


sarrismo s. m. La concezione del gioco del calcio
propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri,
fondata sulla velocità e la propensione offensiva;
per estensione, l’interpretazione della personalità di Sarri
come espressione sanguigna dell’anima popolare 
della città di Napoli e del suo tifo.

Quando un uomo si trasforma in un sostantivo, l’affare si complica. Se era successo per Blair, Renzi e Pippo Baudo, figurarsi per Sarri Maurizio, 59 anni, allenatore, che diventando un -ismo è entrato per decisione della Treccani nel vocabolario della lingua italiana, a indicare uno stile di gioco ma soprattutto “per estensione: espressione sanguigna dell’anima popolare della città di Napoli e del suo tifo”. Nel 2008 l’Istituto aveva accolto “granatismo” (“passione per il Torino”), nel 2012 “balotellata” (“gesto, comportamento, tipici di Balotelli”) e due anni fa “contismo”, da Antonio Conte (“sacrificio, concretezza e concentrazione”). Ma non era esistito un -ismo che fondesse il pallone alla sociologia. Se ne è preso la responsabilità Luigi Romani, linguista, coordinatore editoriale del vocabolario. Il suo Osservatorio documenta nuovi significati e parole. Quando la diffusione ne è certificata, il lemma è promosso. “È la frequenza d’uso”, spiega “a sancire l’ingresso del termine, non una commissione a un tavolo. Non tutte le parole si consolidano. Vanno e vengono. Ora per esempio “craxismo” è candidato a uscire. Resterà di interesse storico ma non è più nell’uso comune”. 

La prima attestazione della parola si colloca in Toscana, Empoli, novembre 2015, quando Sarri era diventato l’allenatore del Napoli da 4 mesi. Fabrizio Corsi, il presidente che se lo era visto portar via, parlando della sua assenza disse a Sky che era dolorosa “perché qui si è creato una sorta di sarrismo”. Aveva inventato il contenitore. Il contenuto lo avrebbe messo Napoli, casualmente città di nascita dell’uomo-ideologia, dove il babbo Amerigo lavorava da gruista per la ditta che costruiva l’Italsider di Bagnoli. Qui Sarri si sarebbe manifestato in tutta la sua iconografia dopo aver lasciato il posto in banca: la tuta anziché la cravatta, le leggende sui 33 schemi, infine il tocco degno di un genio del marketing, dicendosi lettore di Bukowski. Il profilo perfetto dell’anti-sistema, finanche più estremo di Zeman, stesse sigarette e stesso 4-3-3. Un uomo carico di contraddizioni piovuto nella capitale dell’incoerenza. Allena con i droni e dice di leggere solo il Televideo. Ha uno staff che lavora sul dna ma si lamenta se gioca prima, dopo, se il pallone invernale non rotola bene. 

mercoledì 19 settembre 2018

L'incapacità del calcio italiano di decifrare la nuova dimensione

Cambiano i ct, cambiano i calciatori, ma della Nazionale oggi sappiamo le stesse cose di un anno fa: non vince. Finanche la ricerca delle ragioni è diventata uno stanco rosario di pensieri già pensati: gli stranieri, i giovani che non giocano, la crisi dei vivai. C'è in questa paralisi estrema qualcosa allo stesso tempo di casuale e di ineluttabile.
Casuale perché in questo triennio i club italiani hanno lasciato traccia nelle Coppe e le Nazionali giovanili acceso speranze; ineluttabile perché dopo la mancata qualificazione in Russia, la serie B in Nations League porterebbe altra sfiducia e depressione.

giovedì 30 agosto 2018

Sulla pelle di Stefano Cucchi


Ora il mondo saprà di Cucchi - Cucchi Stefano, che avrebbe compiuto quarant'anni a ottobre e che invece è morto a trentuno nella stanza numero 16 al primo piano del reparto di medicina protetta all'ospedale Sandro Pertini, oltre il cancello, oltre le sbarre, rannicchiato vicino alla finestra, dicono fossero le cinque e trenta del mattino. È stata la tragedia italiana di un ragazzo e della sua famiglia che dal 2009 chiede giustizia, mentre ancora si tiene il processo d’appello bis per quella morte avvenuta sei giorni dopo un arresto: tre carabinieri imputati di omicidio preterintenzionale, un maresciallo che risponde dei reati di calunnia e falso. “Non siamo riusciti a salvarti ma te lo avevo promesso che non sarebbe finita lì”, così ha scritto la sorella Ilaria qualche settimana fa sulla sua pagina facebook seguita da 270mila persone, nel giorno del lancio del trailer di Sulla mia pelle, il film sugli ultimi giorni di Cucchi diretto da Alessio Cremonini che aprirà la sezione “Orizzonti” della Mostra di Venezia. Il mondo saprà di Stefano perché, insieme a Lucky Red, il film è distribuito da Netflix nel suo bacino di 190 paesi: per la prima volta in assoluto sarà disponibile in streaming (dal 12 settembre) in contemporanea all'uscita nelle sale, fra le proteste delle associazioni degli esercenti. Il clima? Un mese fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini si schierava contro il ddl sul reato di tortura: “Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi”.

mercoledì 25 luglio 2018

CR7 e la Juventus, l'ultimo strappo dalla Serie A

Non si tirano fuori 350 milioni di euro per vincere un ottavo scudetto di fila, un nono e un decimo; forse nemmeno per dare la caccia alla Champions vale la pena spingersi a tanto. Se la Juventus avesse comprato Cristiano Ronaldo soltanto per vivere gioie che in fondo già conosce, i suoi soldi resterebbero una spesa. Invece sono altro, sono un investimento, sono il prezzo per la resa dei conti definitiva con una dimensione a cui la Juventus sente di non appartenere più. Sarà questo il tema politico e mediatico nel calcio italiano dei prossimi mesi.
La Juventus non sta allargando la distanza con il resto della serie A per accrescere il numero dei suoi titoli; lo fa per andarle oltre, per scrollarsela di dosso, per far diventare la sua egemonia una questione da porre e da risolvere fuori dal terreno su cui la esercita. Prendere Ronaldo e vivere coerentemente con lui non significa battere chi è stato già battuto con Zaza, e neppure superare finalmente quelli che Ronaldo ce l'avevano prima.
L'ingaggio di Ronaldo ha un senso perché aprirà la strada - con un timing perfetto - a discorsi rotondi nelle sedi giuste, in modo da superare i campionati senza storia come quelli in Italia, Germania, Francia.

sabato 21 luglio 2018

La partita che si giocò in una sola metà del campo

La polizia municipale si presentò allo stadio un attimo prima che fosse battuta la palla al centro. Gli austriaci erano tutti schierati, secondo l’ordine che li aveva resi celebri nel mondo [1]. Josef Bican si spazientì perché aveva già piazzato la suola della scarpa sul pallone e nessuno fino a quel momento lo aveva mai obbligato a tirare il piede indietro. Ma il tenente era stato perentorio, aveva tra le mani un foglio di carta che non lasciava spiraglio agli equivoci, chiese di potersi appartare con i due allenatori e a loro per primi comunicò che la partita non poteva cominciare. Marcello Lippi aveva mezzo consumato il quarto Mercator della sua giornata, Hugo Meisl pensò che come al solito, con gli italiani di mezzo, c’era sempre qualche casino che spuntava, ma nessuno dei due aveva alcuna intenzione di rinviare. “Ho qui la relazione definitiva della commissione d’inchiesta sulla staticità dei campi di calcio di tutta la Cacania” [2], disse il tenente allargando le braccia, quasi scusandosi, “e l’analisi finale della commissione di vigilanza sull'agibilità. Metà campo sorge su sottosuolo vuoto. Mi duole comunicarvi che non ci sono le condizioni di sicurezza necessarie per giocare”. Disse così, disse proprio: mi duole, e senza neppure attendere una replica, voltò le spalle e si avviò verso i cancelli ai quali mettere i sigilli.

venerdì 6 luglio 2018

Soldado, il film americano di Sollima


ROMA. Eravamo sarti raffinati e grandi musicisti, montatori, direttori della fotografia e maghi degli effetti speciali. Eravamo affidabili artigiani a cui consegnare un pezzo di film, con la certezza che Ferretti-Lo Schiavo, o Milena Canonero, o Storaro, o Moroder e Morricone, Scalia o Rambaldi avrebbero reso speciali una scena, un taglio di luce o anche solo il profilo di un alieno, il dettaglio indimenticabile del suo dito indice puntato su telefono-casa. Italians, diceva Hollywood, e si pensava a loro. Ora gli Italians reggono le macchine da presa, con una continuità e un'espansione che nel nostro cinema si erano viste raramente. "Le porte le ha aperte Gabriele Muccino una dozzina d'anni fa. Se lui non fosse andato in America, tutto questo non esisterebbe".

Stefano Sollima è l'ultimo a essersi meritato la chiamata. S'è accomodato pochi giorni fa in una poltrona dell'Amc di Marina del Rey, "la mia sala cinematografica preferita al mondo", e ha guardato in anteprima la versione finale del suo Soldado, il sequel di Sicario, giocattolino da cinquanta milioni che Hollywood gli ha messo tra le mani perché il suo viaggio partito dal male di Gomorra. La serie è stato giudicato convincente. Il film esce oggi negli Stati Uniti, noi lo vedremo a ottobre.

venerdì 15 giugno 2018

Come si vive da Roger Federer


PARIGI. Era un ragazzo che spaccava racchette come tanti, oggi è il solo che si muove come un cavaliere, un mistico, uno che cammina con la luce intorno. Il tennista che più di tutti ha vinto senza l’antipatia degli uomini perfetti. Vent’anni da Roger Federer al prossimo Wimbledon. I primi tre per costruirsi, altri due per esplodere, gli ultimi per risalire. È un immortale che non molla il presente. Essere Federer significa colpire la pallina e poi sorridere, stringere mani, fermarsi tre ore al party organizzato al Pavillon Ledoyen da uno sponsor, Möet & Chandon, con una bottiglia creata per lui. Essere Federer significa fingere di ricordarsi di ogni volto incrociato già, rivolgersi a ciascuno nell’altrui lingua, illuderci che sia riproducibile quel suo tennis così leggero e senza sudore. “Ma sono andato via di casa a 14 anni per essere come Edberg e Becker”, dice, “certi sacrifici sono invisibili. Avevo smesso di migliorare. C’è solo una via per crescere. Allenare la parola again. Lo hai già fatto? Fallo di nuovo. Il tennis aiuta: non è mai lo stesso. Bisogna adattarsi alle diversità. L’avversario, la superficie, il clima. Quando piove cambia il modo in cui si colpisce la palla, così anch’io non sono mai lo stesso. Perciò il tennis non mi ha mai annoiato”.

mercoledì 6 giugno 2018

La partita dimenticata dell'Italia di Bearzot

Gli italiani arrivarono all'ora di pranzo, e tutto quello che davvero era importante accadde prima che iniziasse la partita. Appena sceso dalla diligenza che percorreva la Ruta 68 tra Santiago e Valparaíso, Cesare Maldini corse a posare le sue tre valigie in camera, attraversando il profumo dei filari, dei fiori e delle empanaditas ripiene di carne d’agnello. Un paio di passi dietro di lui, Gigi Riva tirò fuori dalle tasche il foglietto a righe su cui una mano amica aveva scritto il nome dell’uomo a cui rivolgersi una volta giunti al pueblo, pochi chilometri dal lago Villarrica, per venire a capo del rebus con cui erano partiti dall’Italia, in questa missione quasi senza speranze per conto di Bearzot.

martedì 5 giugno 2018

Marotta, Lotito e il banchetto delle poltrone

Nei giorni in cui era gratuito indignarsi per gli adesivi di Anna Frank, Giovanni Malagò da presidente del Coni si fece sentire con Tavecchio. Gli chiedeva di isolare Lotito: mai più uno così nelle istituzioni, disse, mai più. Con i super poteri del commissario, ora vede la sua Lega mandare proprio Lotito in Consiglio federale, dentro una partita più ampia sui contratti per i diritti tv, a cui Malagò non è certo rimasto estraneo. Lotito che torna in Consiglio è a tutti gli effetti un frutto della sua politica, come il ritorno a galla di Abete con la candidatura alla presidenza. Il calcio italiano sa sempre come sorprendere e gli uomini di potere sanno come far pace.

giovedì 31 maggio 2018

Il '68 di Paolo Conte: 50 anni di Azzurro


ASTI. Il Maggio francese era 800 chilometri più a nord, la Statale e la Cattolica di Milano occupate a tre ore di treno. In mezzo al ‘68, senza scomporsi, Asti poteva abbandonarsi ai suoi piccoli e grandi drammi periferici. I trattori in strada dopo le grandinate, un colonnello trovato morto nel suo ufficio, due coniugi uccisi in una lite per ventimila lire. Il rione di San Pietro aveva vinto il Palio, la città si appassionava a un convegno sullo zucchero nel vino e Paolo Conte - l’avvocato Paolo Conte - tirava giù da qualche posto misterioso parole e musica di Azzurro. Chissà dove abitano le canzoni prima di nascere.

Il pianoforte su cui venne partorita Azzurro è sempre lì dov’era allora, al primo piano di una palazzina liberty nel centro della città, uno Steinway a coda appartenuto a papà Luigi, notaio, grande consumatore di dischi jazz. “Ora possono passare giorni senza che dia una spolverata ai tasti con le mani”. Quest’uomo di 81 anni le mostra sospese per aria, a galleggiare. Dita lunghe, ossute, sbilenche. “L’artrite. Prendere il si bemolle con il mignolo è una scommessa”. Esagera. A Paolo Conte piace mormorare cose così. “Ci sono tanti concerti sul canale 138, ci passo le giornate, mi impigrisco ad ascoltare”. Ha occhi chiari affilati come spade quando guarda dritto, solo che spesso li manda in giro da tutt’altra parte perché a parlar di sé ancora si vergogna, e casomai gli viene da raccontarsi come se non fosse il musicista italiano che ha scritto la canzone italiana più famosa al mondo insieme con Volare. Sono passati 50 anni, una ricorrenza che celebrerà con un concerto il 14 giugno a Roma, alle Terme di Caracalla, “ma senza arrangiamenti speciali, in versione sportiva, perché magari al pubblico gli va di cantare il ritornello”. Magari.

lunedì 28 maggio 2018

La Juventus e il calcio delle oligarchie

Dopo quattro anni Milano torna in Champions con l'Inter, riprendendo faticosamente la scia di chi nel frattempo ha marciato a un'altra velocità. Il calcio delle oligarchie non aspetta. Rimanere esclusi dal bancomat dei diritti tv su scala europea produce lunghe ricadute nel cortile di casa. Suning voleva riscrivere gli equilibri e non c'era ancora riuscito. La proprietà del Milan resta un mistero, nel disinteresse di Covisoc e Figc. Così la serie A campicchia di realtà pulviscolari. Nessuno sa perché il Genoa incassi e non spenda, dove siano gli investimenti promessi da Saputo a Bologna, che fine abbia fatto l'energia iniziale dei Della Valle a Firenze, che progetti di sviluppo abbia Cairo per il Torino.
Di questo antagonismo spento dovrebbe discutere il calcio italiano. Perciò di egemonia juventina si parlava qui sette giorni fa, generando repliche di tenore vario su social e altri media.

sabato 26 maggio 2018

Il portiere che posò nudo vincendo al fianco di Pelé

Molto prima dei qatarioti che a Parigi vogliono aggiungere Buffon al loro album di stelle internazionali per vincere la Coppa dei Campioni, i discografici dell'Atlantic e i dirigenti della Warner raccoglievano stelle ai Cosmos per promuovere il calcio negli Stati Uniti.
Quarant'anni fa erano i primi, o si dovrebbe dire gli unici.
Andarono a prendersi Pelé e calciatori da 14 paesi differenti, ma il portiere no, il portiere era un ragazzo americano che faceva di tutto per non smentire i cliché sull'estetica e la psicologia del ruolo. Si chiamava Shep Messing, veniva dal Bronx, si era laureato ad Harvard, e in quella squadra di celebrità Beckenbauer, Chinaglia, Carlos Alberto - rimase fino al giorno dell'ultimo trionfo di Pelé, fino alla partita d'addio del brasiliano al calcio che valse il titolo del 1977. Contro Seattle.

lunedì 21 maggio 2018

L'egemonia della Juventus non aiuta il sistema a crescere

Un istante dopo aver finito di celebrare il settimo scudetto della Juventus, il calcio italiano dovrebbe aprire una riflessione sul senso di questa egemonia senza precedenti, tipica solo dei sistemi sottosviluppati.
Non è la serialità delle vittorie a generare intorno a un movimento più interessi, né economici né sentimentali, e una comunità unita dovrebbe prima o poi occuparsene.
Prima ancora che dedicarsi a Orsato oggi e Ceccarini ieri, dei rossi mancati a Pjanic e Rugani, della Var spenta sul fallo di Benatia con la Lazio e del mani di Bernardeschi a Cagliari, chi volesse davvero avversare la Juventus dovrebbe chiedersi come sia possibile nuotare nel suo stesso mare accettando in partenza di vivere agli estremi della catena alimentare, da plancton, sentendosi per giunta accusato di essere "poco allenante".

venerdì 27 aprile 2018

Il miracolo di Ammaniti

Una volta su mille, sosteneva Fellini, i miracoli accadono nel silenzio. Non c’è limite a ciò che può succedere quando si è disposti a crederlo. Scrittori e registi la chiamano sospensione della realtà, i religiosi la chiamano fede. “Un miracolo scoperchia. Il suo senso sta dentro l’eco che ciascuno avverte in sé, nelle domande che ci si pone: perché si sta mostrando a me, perché sono stato scelto io, qual è il mio ruolo nel mondo?”. 

Dopo sette romanzi, un premio Strega e cinque film tratti da suoi lavori, a 51 anni Niccolò Ammaniti si è messo a indagare “le nostre reazioni dinanzi a un evento che va contro i principi della fisica. Cos’è che un miracolo suscita? Paura, curiosità, un allontanamento da sé. Sono partito da una domanda: cosa succederebbe alle persone se un oggetto di plastica di due chili e mezzo producesse 90 litri di sangue al giorno”. È il prodigio raccontato nella serie Il miracolo, dall’8 maggio su Sky Atlantic, otto episodi prodotti da Wildside con Arte e Kwaï, distribuiti da FreemantleMedia, da Ammaniti sceneggiato (con Francesca Manieri, Francesca Marciano e Stefano Bises) e per la prima volta da lui pure diretto (con Francesco Munzi e Lucio Pellegrini). Nel cast Guido Caprino, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Lorenza Indovina, Elena Lietti. 

mercoledì 18 aprile 2018

Gli adesivi di Anna Frank e l'alibi di Fantozzi

Come nel più imbelle dei tentativi per sfilarsi da una situazione molesta, sei dei quattordici ragazzi che a ottobre giocavano a fare i fascisti dentro lo stadio Olimpico attaccando gli adesivi con il volto di Anna Frank in maglia giallorossa — credendo di insultare così ebrei e romanisti — si sono presentati in Procura con un'ultima grande idea per evitare il processo e conquistare l'archiviazione. "Non sapevo si trattasse di lei. Pensavo fosse Mariangela, la figlia di Fantozzi". Un ulteriore salto di qualità della spietatezza, il passaggio dalla banalizzazione all'irrisione. Per sostenere la tesi dello sfottò e smontare l'accusa di istigazione all'odio razziale, dopo la chiusura delle indagini, gli ultrà si sono presentati con le tesi più beffarde: scusate, non era forse una comune bambina?

giovedì 22 marzo 2018

Il calcio visto alla radio

Qualche minuto dopo le quindici, sotto la pioggia, per la prima partita che la Nazionale
giocava nella sua storia a Roma, si presentarono allo Stadio del Partito Fascista il ministro
Giuriati, i sottosegretari Giunta e Balbo, il vicesegretario Starace, l'ammiraglio Sirianni e
venticinquemila spettatori. Tutti gli altri scoprirono che il calcio non si doveva per forza
guardare, ora si poteva anche ascoltare a casa. Bastava accendere la radio. Il 25 marzo del
‘28 - novant’anni fra pochi giorni - gli italiani si imbattevano senza capirlo in una faccenda
che avrebbe finito per cambiare le abitudini della società.

venerdì 16 marzo 2018

Cubillas, Varela e il pallone che guarisce l'acufene

Obdulio Varela nell'illustrazione
di @a_jack_drawings (instagram)

Sedicesimi di finale: Perù 1982-Uruguay 1950
Dove si dimostra che un gol ha quasi sempre a che fare con il sesso e con la morte

Il giorno della partita i giocatori del Perù si svegliarono tutti con un fischio all'orecchio destro, ma prima che se lo rivelassero l’uno con l’altro passarono sette ore e mezza. Geronimo Barbadillo se ne accorse mentre sistemava un paio di statuine in terracotta alle pendici di una montagna, affinché proteggessero i suoi vitigni dalla tramontana, e all'inizio scambiò il sibilo per una folata di vento. Juan Carlos Oblitas Saba e César Augusto Cueto Villa stavano giocando a ping pong usando come tavolo l’altare in legno di una chiesa sconsacrata, scoprendo così che mandare avanti e indietro una pallina sopra una rete è il passatempo più crudele, perché chi pensa perde senza via di scampo [1].

lunedì 12 marzo 2018

Quando rapirono Nils Liedholm

L'illustrazione è a cura di @a_jack_drawings (instagram)

Sedicesimi di finale: Svezia 1958 - Argentina 1986
Dove si ragiona su cosa vada insegnato ai ragazzini

“Rapiremo Nils Liedholm”. Le tre parole scritte su un foglio a quadretti vennero recapitate in albergo tra le mani del portiere alle dieci e un quarto di un giovedì sera, quando per lo spavento provato dinanzi alla faccia dell’uomo che sbiancava, la vecchia stiratrice si bruciò un dito nell'assestare una botta di calore a un colletto inamidato. Il portiere si chiamava Kalle Svensson, ed essendo l’ultimo di dodici figli aveva affinato l’arte di catturare l’attenzione facendo la cosa giusta nel momento giusto. Perciò strappò il ferro di mano alla donna e prese a salire le scale a quattro a quattro, perché così s’era sempre detto, altrimenti per l’ansia a sei a sei le avrebbe fatte, a nove a nove anzi, e comunque mai in numero che non fosse multiplo di tre. Con la piastra in alluminio dell’arnese, Svensson vibrò un colpo alla porta del compagno Nils, spaccò la serratura, e una volta messo piede in camera, scoprì che la lettera diceva il falso. Non avrebbero rapito Liedholm. Liedholm lo avevano rapito già.

giovedì 22 febbraio 2018

Hanno tagliato le scarpe a Valderrama

Illustrazione a cura di @a_jack_drawings (Instagram)
Qualificazione ai sedicesimi: Algeria 1982 vs Colombia 1990-1994
Dove si riflette sulla vanità del colpo di tacco

English version, abstract >>> Here

Ventidue paia di scarpe da calcio non si trovano dalla sera alla mattina con la tomaia tagliata all'altezza della punta, tutte là, per una combinazione. Sin dal primo istante fu chiaro a tutti che non poteva trattarsi di un caso, né di una qualunque altra circostanza che escludesse un movente, un mandante e un esecutore. L’evento eccezionale, alla vigilia della partita più importante nella storia del paese, scatenò la fantasia del popolo e di quelli che avevano intenzione di guidarla.
I conservatori parlarono di un’azione dimostrativa agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e incolparono i leader della lotta contadina impegnati contro le multinazionali della frutta. I liberali sostennero l’evidenza di un’impronta reazionaria affrettandosi ad attribuirla ai vertici delle forze militari in pensione, spaventate si disse dalla gioia che il calcio avrebbe messo in circolo nella vita della nazione. Su un trenino giallo a tre vagoni partito alle undici del mattino dalla vallata, procedendo a non più di trenta chilometri all'ora, dopo un viaggio umido e lento nella terra dei banani e richiamato dalla solennità di quel mistero, giunse allora allo stadio di Macondo il Grande Scrittore, seguito da centinaia di persone in moto e in bicicletta lungo la strada che alla ferrovia correva parallela.

martedì 13 febbraio 2018

Garrincha e la trappola del Belgio

L'illustrazione è di A.Jack199 (instagram)

Sedicesimi di finale: Belgio ’82/86 vs Brasile ’58
Dove si mostra perché si chiama trappola del fuorigioco

I guardalinee baschi arrivarono al campo in groppa a due asini dei Pirenei, e quando scoprirono che le loro bandierine erano state rubate, si alzò improvviso il vento della malevolenza. Non c’era rimedio di cui qualcuno fosse convinto oppure si fidasse. Le indagini si tennero col consueto rigore, in strada e fin sull'uscio del commissariato, sulla scorta di supposizioni, castelli in aria e pettegolezzi. Intorno ai tavoli delle osterie di Alegem [1], il furto diventò il più discusso fra gli argomenti della popolazione, mettendo in secondo piano le accese divergenze che da tempo si manifestavano a proposito delle gabelle sul grano e sulla qualità delle carrozzine cromate per bambini, prodotte dalla ditta del villaggio.
Ai brasiliani non parve vero di poter proporre una partita giocata senza la regola del fuorigioco, da qualche tempo l’arma più temibile dei belgi, i quali ovviamente accolsero l’invito come una provocazione o come il maldestro tentativo di essere resi monchi [2]. Perciò si industriarono per offrire ai signori Xavier Gaínza Pereira e Antonio Gorostiza Rojo, che nel frattempo avevano voltato i musi dei loro ciuchi per tornare a casa, un paio di bandiere sventolate al campo sin dal mattino da un venditore fiammingo di pastelli a cera e da una anziana sarta vallone, la quale ai bordi del suo drappo aveva peraltro ricamato un bel merletto. A quel punto fu l’allenatore sudamericano a rizelarsi, Vicente Feola, richiamando alla memoria prima e sulle labbra poi, certi malocchi del Cilento che suo padre aveva fatto in tempo a riferirgli quando erano attraccati a San Paolo, lasciandosi alle spalle il mezzogiorno d’Italia. “Io una partita con dei guardalinee che sventolano la bandiera del Belgio non la voglio giocare” disse, e dell’ipotesi smise di parlare. I baschi, dal canto loro, neppure presero in considerazione l’ipotesi di agitare nell'aria stracci e maglioni che le lavandaie offrirono tornando dal pozzo. Gli pareva una perdita di autorevolezza e come dei re Magi al contrario, umiliati e offesi, si rimisero in cammino.

martedì 6 febbraio 2018

Meazza, Kempes e le matite spezzate

maiali colorati
L'illustrazione è opera di @a.jack199 (instagram)
    Sedicesimi di finale: Italia '34/'38 vs Argentina '78
Della natura politica del calcio

Il ministero della cultura confermò con un fonogramma urgente che dopo la mezzanotte del venerdì sarebbe arrivato il sabato, e gli italiani vestiti di scuro non ne vollero sapere di far cominciare la partita prima di averlo degnamente celebrato. Le squadre di calcio vennero allora bloccate nel tunnel cinque metri sotto terra, dove ancora non sospettavano che sarebbero rimaste ore e ore. Gli argentini stavano ancora infilando i calzettoni. Dentro lo stadio del paese giungevano suoni di campanelli e squilli di trombetta, ma così piccolini e soffocati che parevano sibili di zanzare, come usciti da ruote di un carro fasciate di stoppa e cenci. Lungo le piazze si vedevano teatrini di tela affollati di bambini, e sui muri delle case alcune scritte col carbone [1]. I ragazzi più coraggiosi si lanciavano dentro cerchi di fuoco e maneggiavano moschetti di legno, mentre le ragazze in camicetta bianca e gonna nera facevano roteare bandiere e clave.

lunedì 29 gennaio 2018

Platini e la barriera di piume


L'illustrazione è opera di @a.jack199

Sedicesimi di finale: Germania 2014 - Francia 1982/1986
Dove si evince l'immenso potere di una punizione

English version, abstract >>> here 

A un minuto dalla fine Michel Platini sbuffò e si lasciò cadere. Aveva il gomito avvitato nell'erba, il mento appoggiato al palmo della mano e adesso aspettava che i tedeschi la smettessero di sollevare inutili questioni. Dall'alto del ruolo di campioni in carica, tenevano in ostaggio il pallone e chiedevano di esporre le proprie ragioni a qualcuno che stesse un po’ più su di questo arbitro scelto chissà da chi, un birraio di Gand dalla faccia rossa e i capelli bianchi come la schiuma, convinto d'essere credibile mentre in fiammingo impartiva l'ordine di proseguire, andare avanti, continuare e chiudere la partita come nulla fosse, ché presto o prestissimo quei dieci corvi dagli alberi calati fin sul campo sarebbero volati via lontano: a lui non pareva bizzarro neppure che fossero alti un metro e ottantadue.

venerdì 26 gennaio 2018

L'amicizia tra la Ortese e Adriana Capocci

Questa è la storia di un’altra amica geniale, vicina ad Anna Maria Ortese, di nome Adriana e compagna universitaria di Alda Croce, figlia del filosofo. Ma l’ambiente napoletano non è lo stesso in cui Elena Ferrante farà crescere i due personaggi di Elena e Raffaella, Lila e Lenù, durante il ciclo dei suoi romanzi. Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, qui siamo in quella porzione di Napoli che trascorre l’estate a Capri. L’aristocratica Adriana Capocci di Belmonte era stata con le braccia sollevate e le gambe divaricate, sulle rocce di Marina Piccola, la misteriosa silhouette per un quadro del futurista Enrico Prampolini, prima di cominciare a frequentarsi con la ragazza che sarebbe diventata l’autrice di Poveri e semplici, premio Strega nel 1967.

Quel legame viene ora ricostruito nel libro di Sergio
Lambiase  Adriana cuore di luce (Bompiani, 208 pagine, 16 euro), attraverso il diario di lei e alcune lettere ritrovate in casa di una pronipote. Qualcosa era emerso nella biografia della Ortese firmata da Luca Clerici, e delle lettere si erano occupati anni fa i quotidiani. Lambiase ora dà veste e metodo alla materia, a un’amicizia che fu parte della breve esistenza di Adriana, morta di tubercolosi a soli 26 anni. I Capocci discendevano da una famiglia patrizia: principi, astronomi, avvocati, autori di canzoni, eroi di guerra e calciatori d’inizio ’900, quando il pallone era faccenda per la upper class. Il mondo di Adriana è questo: le ville, gli ospiti illustri, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo. Lei è minuta ma esuberante, “lisci capelli tra il biondo e il fulvio, sguardo ironico, eleganza mai scontata”, legge a 18 anni L’amante di Lady Chatterley, vive con “una sorta di malessere, di disagio dello spirito, che la coglie nei momenti più inaspettati”. S’invaghisce del poeta indiano Saumyendranath Tagore, confessa al suo diario un bacio scambiato con Alberto Moravia.

Anna Maria Ortese vive invece i giorni dolorosi delle morti violente di due fratelli, abita a due passi dal molo in cui gli emigranti s’imbarcano per l’America, e quando si imbatte in Adriana scopre complessi e inadeguatezze, finanche cresciute quando le due finiscono per innamorarsi dello stesso uomo, Aldo Romano, storico, ma anche informatore della polizia fascista. La Ortese scrive: “Cara Adriana, io sarei felice se tu che sei a Roma potessi darmi notizie di lui (se è sposato non dirmelo mai mai)”. Sposato no, ma fidanzato sì. Con Adriana. Perciò la lettera successiva della Ortese è feroce: “Mi dovresti chiedere perdono e mi parli ancora della tua felicità. Senti, io t'ho voluto bene come nemmeno tuo padre quando t'accarezza te ne vuole, e tu mi ricambi con tanta volgarità (...). Non scrivermi più”.  La malattia di Adriana sarà motivo di rimorso per la Ortese: “Mi porterò in cuore, come un chiodo, le barbare parole che scrissi a te, leggera e dolce come un uccello”. Il Porto di Toledo, del 1975, sarà il romanzo trasfigurato della loro amicizia spezzata.

(Il Venerdì, 19 gennaio 2018)

mercoledì 24 gennaio 2018

Gascoigne e le due maglie di Pelé


Gascoigne-Inghilterra-Mondiali-1990

Sedicesimi di finale: Brasile 1970 - Inghilterra 1990
Dove si riflette sul significato di essere maestri

English version, abstract >>> Here

Erano passate tre ore, cinquantuno minuti e una cifra non quantificabile di secondi dall'inizio della partita, tempi supplementari compresi, e l'uomo che sembrava un orsacchiotto timido aveva già voglia di cominciarne un'altra [1].
Il gesto di Paul Gascoigne – spostarsi, portare fisicamente il suo corpo dentro lo spogliatoio del Brasile – ebbe la semplicità di un tema di quarta elementare. Se non hai capito - significava - adesso si fa come dico io. “Maestà”, mormorò - ma senza troppa convinzione - “maestà, come già accennavo in campo, avrei piacere di ricevere un’altra maglia”.
“Un’altra oltre quella che abbiamo già scambiato?” chiese il sovrano per essere sicuro di aver capito bene l’inglese.
Gascoigne annuì senza parlare, come sempre fanno quelli che conducono il discorso. E Pelé, perché era di Pelé la testa coronata, seppur sovrano finì per obbedire. Ma tutto questo avvenne dopo. Tre ore, cinquantuno minuti e una cifra non quantificabile di secondi dopo la partita.
Alle tre del pomeriggio tutto doveva ancora succedere e la giornata che avrebbe cambiato per sempre il calcio, l’apertura dei Mondiali immaginari, aveva solo bisogno di qualcuno che battesse la prima palla al centro. I brasiliani pretesero che si giocasse con una vescica di bue riempita d’aria [2]
, gli inglesi allora si impuntarono per fissare il campo presso il giardino di Elvedon, con due coppie di giganteschi funghi rossi come pali e l’odore delle felci a stordire le cornacchie [3].