lunedì 29 gennaio 2018

Platini e la barriera di piume


L'illustrazione è opera di @a.jack199

Sedicesimi di finale: Germania 2014 - Francia 1982/1986
Dove si evince l'immenso potere di una punizione

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A un minuto dalla fine Michel Platini sbuffò e si lasciò cadere. Aveva il gomito avvitato nell'erba, il mento appoggiato al palmo della mano e adesso aspettava che i tedeschi la smettessero di sollevare inutili questioni. Dall'alto del ruolo di campioni in carica, tenevano in ostaggio il pallone e chiedevano di esporre le proprie ragioni a qualcuno che stesse un po’ più su di questo arbitro scelto chissà da chi, un birraio di Gand dalla faccia rossa e i capelli bianchi come la schiuma, convinto d'essere credibile mentre in fiammingo impartiva l'ordine di proseguire, andare avanti, continuare e chiudere la partita come nulla fosse, ché presto o prestissimo quei dieci corvi dagli alberi calati fin sul campo sarebbero volati via lontano: a lui non pareva bizzarro neppure che fossero alti un metro e ottantadue.


Joachim Löw, l’allenatore dei tedeschi, fu abbastanza netto. Conoscendo la potenza del tiro di Schweinsteiger, non se la sentiva di mettere a repentaglio la sicurezza dei passeriformi piazzati al limite dell’area di rigore, citò le posizioni sul tema di Jokshka Fischer e comunicò chiaro e tondo che la militanza politica tra i Verdi gli imponeva di abbandonare il campo e di non ricominciare. Uno alla volta si accodarono tutti i suoi e il gioco venne fermato per attendere l'arrivo degli ispettori dal dipartimento, convocati sul posto affinché prendessero una decisione. "Ci vorrà un’ora di macchina o un giorno di cammino" avvertì l’incaricato della prefettura. Restava un solo minuto da giocare ma nessuno sapeva quando quel minuto sarebbe cominciato. Dal piccolo stadio in mezzo alla campagna di Claquebue [1], informati via altoparlante di ciò che accadeva da Orazio Pánamo, gli spettatori si riversarono al mercatino del villaggio più vicino, sparpagliandosi fra decine di tende e una rigatteria senza insegna, dall’intonaco raschiato, con un cartello che prometteva credito soltanto ai ricchi. C’erano all’interno le candeline soffiate da Pompidou per il suo undicesimo compleanno, quattro matite spezzate dalla collezione di Albert Uderzo, mezzo limone spremuto da André Breton su un piatto di frutti di mare consumato a Le Havre, un costume da bagno appartenuto a Jeanne Moreau, e altri cento oggetti accumulati con lo stesso spirito, perfino l’involucro di cuoio di un pallone da calcio che veniva presentato come una effigie appartenuta alla papessa Giovanna [2].


Michel Hidalgo, il commissario tecnico francese, entrò inatteso per donare i quaderni su cui era solito prendere appunti, chiedendosi in cuor suo se il meraviglioso e l’insolito fossero davvero un valore, se lo stupore confina poi con la bellezza, e dove casomai, a nord, a est, a sud - tornandosene alla fine del suo ragionamento nel casolare che fungeva da spogliatoio per la squadra, dove una dozzina di stuoie spelacchiate erano nascoste dietro la zanzariera di tulle montata all'ingresso. Non tutti i suoi ragazzi s’erano sdraiati per riposare. Il più piccolo, Alain Giresse, gambe corte e cervello grosso quanto un pallone, scarabocchiava calcoli matematici su un muro con un gessetto porpora [3]. Hidalgo sbirciò tra i numeri, e di fronte a un paio di equazioni che pretendevano di indicare quale fosse la soluzione migliore per distribuire il gioco in campo, intervenne sostenendo che “il punto non è la velocità, il punto è la tecnica. Riduciamo il numero dei tocchi di palla. Avanziamo disegnando sul prato una ragnatela di passaggi fatta di triangoli dentro spazi larghi, poi cambiamo settore all'improvviso con qualche lancio lungo”. Annoiato, Platini si cercò un posto all'ombra. Brontolò: “Non è il fisico che deve comandare le nostre scelte, ma la mentalità”. Il calcio di Hidalgo era sempre stato un elogio dell’età di mezzo, convinto com'era che i giovani dovessero avere le loro occasioni per crescere e gli anziani quelle per sentirsi al sicuro. “La paura di perdere minaccia la voglia di vincere. Non è grave non riuscire in un’impresa”, aggiunse, “grave casomai è non tentare” [4].

Jean Tigana attraversa i muri


Fatto sta che un’ora più tardi a Claquebue non c’era ancora traccia degli ispettori attesi, e a tutti - francesi, tedeschi e spettatori - fu evidente che quelli dal dipartimento dovevano essersi messi in marcia a piedi, e che dunque un giorno intero bisognava arrendersi a veder trascorrere. Fu dopo il tramonto che i corvi in campo si misero a gracchiare. Due bambini per lo spavento corsero a nascondersi dentro il cesto delle maglie sudate da portare a risciacquare al fiume. Jean Tigana avvitò i tacchetti, allacciò le scarpe numero 37 e uscì a dare un’occhiata. Con lo sguardo fisso davanti a sé e gli occhi persi nel buio, uno dei tedeschi gli dava le spalle pur avendolo sentito arrivare. Aveva tra le labbra radici di liquirizia e ai piedi scarpe di sughero ricavato dalla decorticazione di una quercia. “Sono espettoranti” disse senza voltarsi, rispondendo a una domanda che non era mai arrivata. Tigana gli guardò i calzari. Il tedesco intuì: “Non quelli, dicevo le bacchette di liquirizia”. Quando si fissarono per la prima volta, a uno dei corvi cadde una piuma, capace di provocare una scossa di terremoto impercettibile a ogni sismografo. Chiunque lo avrebbe scambiato per un cattivo presagio. Come aveva imparato nei villaggi del Mali di cui era originario, Jean invece intagliò una zucca, la riempì di birra di miglio e la porse all'uomo biondo in segno di amicizia. La folla che dormiva sugli spalti non si accorse di nulla, le donne erano stremate per la fatica fatta nel ricamare le iniziali di ogni spettatore sui cuscini distribuiti dalle guardie forestali affinché la notte non fosse disagiata. Philip Lahm - lui era il tedesco, il capitano - parlò ininterrottamente per una dozzina di minuti, naturalmente senza essere compreso. “Non voglio invecchiare sul campo. Vinco, mi ritiro e faccio l’imprenditore” [5], disse con un tono amaro. Tigana gli offrì uno spezzatino di verdure piazzandogli il piatto sotto il naso e lasciandogli intendere a gesti che doveva servirsi con la sola mano destra, essendo la sinistra, per usanza, deputata alla pulizia del corpo. Gli parlò mentre mangiavano, inascoltato e in sintesi, della sua infanzia da immigrato nel quartiere marsigliese di La Cayalle, delle passeggiate in montagna, della moglie di origine sarda. E quando Lahm ebbe ormai ingoiato il terzo boccone, scoprì che iniziava a esprimersi sia in francese sia in bambara, la lingua dell’etnia dominante nei dintorni di Bamako. Finalmente cominciarono a capirsi. Allora Lahm chiese a Tigana come riuscisse a giocare un così alto numero di palloni senza errori. “Il mio segreto”, si sentì rispondere, “è pensare che c’è sempre qualcuno pronto a prendere il mio posto”. Quando infreddoliti rientrarono insieme nel casolare, dietro la zanzariera bianca, e in controluce, faceva muovere le ombre con le mani Marius Trésor, uno dei difensori, il gigante della squadra, accompagnando i gesti con dialoghi, musiche e suoni strani. “Sta facendo il cinema” spiegarono gli altri ai due che adesso s’aggiungevano alla platea. Trésor proiettava a modo suo per i compagni i film che aveva visto e non aveva più scordato. Ne recitava le battute, e mentre con due dita simulava nell'aria un calcio da arti marziali disse: “Non siamo ancora pronti ma presto lo saremo se seguiteremo a praticare l'arte di combattere e di difenderci senza mai provocare, secondo l'insegnamento che abbiamo ricevuto” [6]. Patrick Battiston non si lasciò affascinare. Aveva scelto di chiudere gli occhi e addormentarsi. Da tempo era convinto di poter parlare in sonno ai calciatori del passato, e a ogni risveglio si compiaceva di riferire i messaggi che dall'aldilà, una volta Fontaine e una volta Kopa, facevano giungere alla Francia. Così, con un poncho di ciniglia sulle spalle, si voltò dall'altra parte per incontrare i morti. Löw si era informato sul programma. Non essendoci al Cinema Trésor in programmazione nulla di Wim Wenders, preferì starsene sull'uscio a far due chiacchiere con Hidalgo, in questa strana sospensione del tempo e della rivalità che dai corvi era stata imposta ai Mondiali.


La maglia della Germania 2014
(da Folha)

“Ero convinto di essere nato per ubbidire”, mormorò l’allenatore dei francesi, “perciò quando mi hanno affidato la guida della squadra, ho creduto che fosse utile stare tra i giocatori, non sopra di loro. Questo fa un leader, non trova? Un leader non esercita di sua volontà. Gli viene sempre silenziosamente chiesto di farlo. Ho avuto maestri e non ho allievi. Abito in campagna perché Parigi stanca” [7]. "Essere visionari, monsieur, questo è il nostro ruolo. Questo siamo chiamati a essere per spingere le nostre squadre un po' più in là", rispose allora Löw, "guardi cosa fanno gli italiani. Sono come lupi travestiti da agnelli. Sono illusionisti. Regolano il loro stile come nessun altro. Riescono a gestire, cambiare e aggiustare il loro gioco come vogliono. E quando ti hanno fatto credere di averti lasciato in pugno la partita, eccoli lì che spuntano fuori" [8]. A Hidalgo scappò una smorfia. Non seppe tenersi. “Ho sempre avuto pena del calcio italiano. Un popolo di artisti, molto sensibile, che nel calcio ha un’eccezione: è troppo organizzato. Forse è l’unica cosa realmente organizzata in Italia. Un calcio così orribile non lo avrei mai concepito” [7].


Il sonno dopo il cinema fu breve. Platini venne svegliato da una gigantesca ombra di due baffi biondi che si sovrapponeva ai calcoli di Giresse sulla parete e dalle urla disumane di Battiston, che aprì gli occhi di soprassalto giurando che qualcosa di tremendo sarebbe di certo accaduto. “Ho sognato Schumacher. Sta tornando per farmi del male” [9]. Per la paura aveva perso sette chili mentre dormiva, senza muovere neppure una falange. Tigana ne fu turbato e fu allora che tutto il resto accadde. Dal finestrone in alto a destra, dentro il casolare si fece strada un raggio verde a cui nessuno diede troppa importanza finché non si fu posato sul capo di Jean, il quale nel suo cammino confuso e tormentato, su e giù per la stanza, attraversò le pareti come fosse stato di polvere, o come se di polvere fossero esse stesse, senza conseguenza alcuna, se non quella di ritrovarsi addosso la traccia di gesso di un paio di addizioni di Giresse. Platini fu il più lesto a intuire come portare in campo l’arma letale: “Diamo la palla a Tigana. Se è diventato di polvere, se può attraversare i muri senza essere fermato, nemmeno i tedeschi in campo sapranno più bloccarlo”. Hidalgo lo fulminò con uno sguardo. Gli ispettori non arrivarono neppure il giorno dopo. Era ormai chiaro che del reclamo dei tedeschi se ne infischiavano. Orazio Pánama venne incaricato dagli organizzatori di comunicare che il gioco sarebbe ripreso da dove era stato interrotto, ultimo minuto, calcio di punizione per la Francia dal limite dell’area, oppure contro gli ammutinati ci sarebbe stata una sanzione. Löw fu irremovibile, e i suoi con lui, loro non avrebbero giocato con i pennuti in campo, ma per salvare la nazione dall'onta di una squalifica, il solo portiere Neuer accettò di rientrare e di piazzarsi in porta, avendo studiato per anni ogni traiettoria possibile dei tiri di Platini. I corvi sarebbero stati la sua barriera. Ordinò loro di spostarsi un po’ verso sinistra, per coprire il primo palo, e quelli obbedirono, così che Platini avrebbe potuto solo provare ad aggirarli dall'altra parte, cercando l’effetto con l’interno del piede. Fu una sorpresa scoprire invece che Michel partì dritto, perpendicolare al pallone, colpendolo di potenza e mandandolo consapevolmente al centro della barriera. Non poteva immaginare, Neuer, che prima di tornare in campo Platini aveva per un istante piazzato il pallone sotto il raggio verde. Il tiro trapassò uno dei corvi in mezzo al petto e finì imprendibile all'incrocio dei pali, senza nemmeno spiumare l’uccello, e di questo almeno si rallegrarono alla fine gli animalisti. Poi, per uno strano scherzo del destino, o per un passaparola di cui ancora oggi non v’è traccia né certezza, la folla invase il campo e corse a portare in trionfo Tigana [10].



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Il tabellino della partita
Francia 1982/1986 vs Germania 2014 1-0
Francia: Ettori 6.5; Amoros 6, Bossis 6; Giresse 7, Trésor 7, Battiston 6 (dall’89’ Janvion s.v.); Six 6 (dal 66’ Fernandez 6.5), Tigana 8, Rocheteau 6, Platini 7, Genghini 6.5.
Germania: Neuer 5.5; Lahm 6, Höwedes 5; Khedira 5.5, Boateng 6, Hummels 6; Özil 6, Schweinsteiger 6 (dall’80’ Schürrle s.v.), Müller 5.5 (dal 76’ Klose 5.5), Kroos 6, Götze 6.
Arbitro: Erik Roelants (Belgio).
Rete: 89’ Platini

note al testo
[1] La località è partorita dalla fantasia di Marcel Aymé (La giumenta verde, 1933). ^
[2] È questo passaggio, insieme, calco e citazione di un’altra opera di Aymé (Il passamura, 1943), a cui in generale per buona parte il racconto si ispira. ^
[3] Il 30 marzo 1985, sul Corriere della sera, un articolo di Silvio Garioni parla di Giresse come di “una specie di computer programmato intelligentemente per dare sempre le risposte giuste”. ^
[4] Nel suo libro "Tutte le strade portano a Roma”, Rudi Garcia scrive a proposito di Hidalgo: “Mi piaceva il suo modo di esprimersi con parole scelte sempre accuratamente e strutturate in frasi meravigliose. Si teneva sempre al di sopra della mischia, rifiutando polemiche sterili e ragionamenti mediocri”. ^
[5] Lahm confessò i suoi progetti nell’aprile 2017 a Martin Scholz e Julien Wolff, giornalisti di Die Welt. ^
[6] Si tratta di un dialogo tratto dal film “Dalla Cina con furore”. In una intervista rilasciata il 24 aprile 2017 a Florien Bories per la rivista So Foot, Tresor rivelò la sua passione per il cinema e in particolare per Bruce Lee. Quando giocava a Marsiglia, riceveva biglietti gratis dal presidente, proprietario di una sala cittadina. ^
[7] Una buona parte di queste dichiarazioni sono ispirate da un'intervista di Hidalgo a la Stampa del 31 dicembre 1984. ^
[8] Così la pensa Löw in due interviste date a Süddeutsche Zeitung il 13 novembre 2013 e a Deutsche Welle il 12 novembre 2017. ^
[9] Nella semifinale dei Mondiali 1982, il portiere tedesco Schumacher aveva travolto Battiston colpendolo alla testa e mandandolo in ospedale. Schumacher rilasciò poi dichiarazioni ineleganti (“Gli pagherò io una dentiera d’oro”). I lettori de Le Figaro lo indicarono in un sondaggio come il tedesco più odiato di tutti i tempi. Al secondo posto Hitler. Inviato per il Corriere della sera a quei Mondiali, Mario Soldati scrive così il 10 luglio 1982: “Gli occhi verdi di Schumacher, i capelli ricciuti, i lunghi, irti baffi biondi, l’intensità malvagia del suo sguardo e la smorfia di disprezzo assoluto. E capii, in quell'istante, di avere già visto quella stessa faccia orribile, quell'espressione spaventosa di odio… dove l’avevo vista? Dove! Ma sì, in un quadro antico. Nel polittico di Colmar. Grunewald identico a Schumacher, il manigoldo, l’armigero riccio e coi baffi biondi che flagella Cristo! Mettete l’elmetto a Schumacher: ecco il manigoldo di Grunewald”. ^
[10] Nino Petrone, Corriere della sera, 18 giugno 1984: “È un curioso e indefinibile sentimento quello che lega i francesi a Platini. (…) Un rapporto di dare e avere, lo spessore umano è sottilissimo. Non a caso il pubblico di Nantes a fine partita ha scandito il nome di Tigana e non quello di Platini che pure era stato l’indiscutibile eroe della partita stravinta (…) Forse gli orgogliosi francesi non hanno mai perdonato a Platini di essersi trasferito a Torino: sicuramente non gli perdonano quel tanto di juventino che sta nelle sue parole e nel suo comportamento in campo (prima pensare a vincere e poi accontentare la platea)”. Nello stesso articolo è riportata una dichiarazione di Platini: “È sempre difficile capire i francesi, ma non è il caso di farne un dramma”. ^








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