martedì 13 febbraio 2018

Garrincha e la trappola del Belgio

L'illustrazione è di A.Jack199 (instagram)

Sedicesimi di finale: Belgio ’82/86 vs Brasile ’58
Dove si mostra perché si chiama trappola del fuorigioco

I guardalinee baschi arrivarono al campo in groppa a due asini dei Pirenei, e quando scoprirono che le loro bandierine erano state rubate, si alzò improvviso il vento della malevolenza. Non c’era rimedio di cui qualcuno fosse convinto oppure si fidasse. Le indagini si tennero col consueto rigore, in strada e fin sull'uscio del commissariato, sulla scorta di supposizioni, castelli in aria e pettegolezzi. Intorno ai tavoli delle osterie di Alegem [1], il furto diventò il più discusso fra gli argomenti della popolazione, mettendo in secondo piano le accese divergenze che da tempo si manifestavano a proposito delle gabelle sul grano e sulla qualità delle carrozzine cromate per bambini, prodotte dalla ditta del villaggio.
Ai brasiliani non parve vero di poter proporre una partita giocata senza la regola del fuorigioco, da qualche tempo l’arma più temibile dei belgi, i quali ovviamente accolsero l’invito come una provocazione o come il maldestro tentativo di essere resi monchi [2]. Perciò si industriarono per offrire ai signori Xavier Gaínza Pereira e Antonio Gorostiza Rojo, che nel frattempo avevano voltato i musi dei loro ciuchi per tornare a casa, un paio di bandiere sventolate al campo sin dal mattino da un venditore fiammingo di pastelli a cera e da una anziana sarta vallone, la quale ai bordi del suo drappo aveva peraltro ricamato un bel merletto. A quel punto fu l’allenatore sudamericano a rizelarsi, Vicente Feola, richiamando alla memoria prima e sulle labbra poi, certi malocchi del Cilento che suo padre aveva fatto in tempo a riferirgli quando erano attraccati a San Paolo, lasciandosi alle spalle il mezzogiorno d’Italia. “Io una partita con dei guardalinee che sventolano la bandiera del Belgio non la voglio giocare” disse, e dell’ipotesi smise di parlare. I baschi, dal canto loro, neppure presero in considerazione l’ipotesi di agitare nell'aria stracci e maglioni che le lavandaie offrirono tornando dal pozzo. Gli pareva una perdita di autorevolezza e come dei re Magi al contrario, umiliati e offesi, si rimisero in cammino.

I saggi del paese si riunirono e dissero la loro, non prima d’avere le parti in causa convocato. Offrirono una irriferibile somma ai belgi affinché considerassero l’idea di mettere da parte ricercatezze tattiche e alchimie che senza guardalinee nessuno avrebbe mai gestito. Con passo messicano e un cappello a falde larghe per coprire la calvizie, Wilfried van Moer si avvicinò e rigettò il progetto: “I soldi non creano l’allegria. Una palla fatta anche di stracci invece sì, almeno qualche volta. Io non sono ricco come i calciatori italiani o tedeschi. Ma non ho rimpianti. La mia ricchezza sta nella piccola taverna che gestisco a Tongres, nelle persone che la frequentano, nella birra che beviamo insieme e nella piccola casa di campagna ad Hasselt, dove aiuto mia moglie in cucina e gioco con i miei figli e con due cani arrivati un bel giorno da chissà dove”. Se avesse accettato, a lui personalmente sarebbe giunta in dono una scatola magica in cui scorrevano - difficile ora da spiegarsi bene - le immagini di quel che al mondo accade, comprese in certi casi partite di calcio giocate in posti assai lontani. Van Moer aveva l’aria di sapere cosa lo aspettasse e disse:“Non ho tempo il sabato e la domenica di guardare questa cosa che chiamate televisione ” [3].
Tra i brasiliani fu chiamato a deporre uno dei terzini, Nilton Santos, nato a mezzogiorno con gli occhi spalancati e primo di sette figli, proprietario di un negozio di articoli sportivi che aveva presto chiuso perché, disse, non sapeva vendere niente a nessuno, e manco comprare. Casomai voleva insegnare ai bambini poveri cosa significa correre dietro un pallone, e che correre dietro un pallone in certi posti finisce per salvarti la vita. I saggi lo avevano invitato conoscendo il soprannome con cui in Brasile lo conoscevano, A Enciclopedia, giacché tutto sapeva del calcio, confidando che fosse lui ad avere la soluzione giusta. Gli domandarono cosa avrebbe voluto in cambio per convincere i suoi ad accettare la proposta belga, e ricordando i giorni in cui da bambino alto magro e nudo giocava per le strade del quartiere Ilha do Governador con gli amici Gervais, Feguinho e Garzinho, il povero Nilton rispose: niente, non voleva proprio niente, solo potersi spingere ogni tanto un po’ in attacco. La ciminiera della fabbrica di birra si sporgeva alle spalle del campo dell’Excelsior e lo stallo si ruppe quando dalle bancarelle di torroni, gaufre e gracht brood, il sindaco sbucò con l’Almanacco delle Decisioni Mai Prese tra le mani, terza edizione, rilegatura a brossura. Lo sfogliò fino a pagina sessantasei, e al rigo quarto inciampò in un’evidenza che nessuno aveva considerato prima. Perciò tutto dispose di conseguenza. Ai bordi del campo, lungo le linee laterali, furono chiamate le gemelle Nelly e María Bonita Duclos-Lassalle, le orfane di un orafo francese che da giovanissime mandavano avanti gli affari di famiglia. Venivano, le genti, dal Lussemburgo, dalla Frisia e dal Brabante a farsi tagliare gemme nel laboratorio, a realizzare fori, incastonare pietre, incidere metalli. Avevano tanto dedicato il loro sguardo alla precisione - si raccontava - che un giorno si erano accorte della presenza di una pagliuzza nell'occhio di una pulce. Fu brevemente spiegato loro come funzionava il calcio, e con il monocolo incastrato fra sopracciglio e zigomo presero il posto dei baschi disertori, acconciandosi ad aspettare l’inizio dell’incontro. Con uno spiccato senso pratico promisero di alzare semplicemente un braccio in caso di fuorigioco, scoprendo però che la questione non era affatto chiusa.
Vincenzo Scifo
Maglietta pantaloncini e sandali, vestito come un pensionato alle terme, con il candore fra i capelli e le rughe a circondargli gli occhi trasparenti, Guy Thys tirò in quel preciso istante un paio di boccate al sigaro [4] e mise in piazza i suoi pensieri, stavolta stranamente figli dei cliché:“Siamo sicuri che le signore abbiano capito il fuorigioco?”. Alle accuse di misoginia replicò che non ne faceva una questione di genere ma di competenze, anzi, lui stesso aveva un mucchio di amiche guardalinee ma “la cosa fondamentale, nel calcio, è essere realisti. Per questo”, aggiunse, “a me piace più il football europeo di quello sudamericano, mi piace più la sostanza del balletto” [5].
Per ventiquattro volte di fila i brasiliani caddero nella trappola del fuorigioco, e in tutti e ventiquattro i casi le gemelle tennero il braccio alzato, chiudendo entrambe l’esperienza con un’infiammazione alla cuffia dei rotatori [6]. Alla venticinquesima Edvaldo Izidio Neto, noto al mondo come Vavà, gettò un urlo che si ascoltò nelle profondità di cento miniere. Una sola cosa sapeva fare Petto d’acciaio con la sua faccia da bulldog, segnare, e senza il gol cadde in uno sconforto che lo spinse ad arrampicarsi sulla traversa della porta, minacciando di fronte alla folla di buttarsi giù [7]. Feola convocò d’urgenza a bordo campo Hilàrio da Costa dos Santos, un vecchio scacchista di Recife che per adesione al veganesimo non aveva mai mangiato un cavallo. Con la sua voce sottile, da Costa urlava suggerimenti e strategie per motivare Vavà e spingerlo a una reazione contro la scaltrezza tattica dei belgi. Millantando una laurea in psicologia e mescolando nei suoi sproloqui marxismo gramsciano e cristianesimo, riuscì a convincere il giocatore a scendere dalla traversa e a rinunciare ad altri gesti sconsiderati.
La noia mortale della partita rimase impressa nelle pupille del cane da guardia dello stadio, che nei due anni successivi non ebbe mai più la forza di abbaiare. Come vittime di un maleficio o come un disco rotto, i brasiliani ripetevano sempre la stessa manovra [8]. A Djalma Santos dal pubblico lanciarono un anello e una banana. Allora O Lateral Eterno, com’era detto, si chinò a raccoglierli senza scomporsi, si avvicinò a un uomo e glieli restituì dicendo: “Credo che siano suoi” [9]. Nell’attesa di un’emozione, il povero van Moer sembrò invecchiare di altri due anni e nel tentativo di accattivarsi le simpatie di un paio di emigranti italiani arrivati allo stadio, decise di passare il pallone [10] sempre e soltanto a Vincenzino Scifo, un ragazzo triste che giocava con la testa alta e che sembrava avesse un altro paio d’occhi dietro la nuca. Muoveva le braccia come ali e calciava come se avesse avuto un pennello ai piedi, così quando dai trenta metri fece partire una traiettoria verso il centro dall’area, le gemelle rilevarono in quell’arco meraviglioso il 75 percento di oro puro [11]. Si invaghirono di lui fino a sognarlo ogni notte per i successivi venticinque anni, facendo a gara per addormentarsi ciascuna prima dell’altra, in modo da scegliersi in anticipo e in esclusiva la propria fantasia preferita, e afferrarla nel torpore e trattenerla. Nelly lo chiamava la luce venuta dal sud, María Bonita il suo genio bruno. Inconsapevole di simili convegni notturni, Scifo avrebbe invece continuato a sognare la semplicità della Sicilia, la carta a fiori sulle pareti, i fili della biancheria fuori dal balcone, il bianco accecante dalla finestra. Si svegliava perciò sempre di malumore nonostante le brioscine calde calde di sua madre, perché il tempo in Belgio è di una pignola brutalità [12].
L'immagine è a cura di @a.jack199 (instagram)
Anche quel mattino pronunciò allo specchio la stessa frase che si rivolgeva radendosi e tagliandosi la guancia di proposito (“il sangue che scorre nelle mie vene non ha mai cambiato colore”), e portò in campo la malinconia che vive un pulcino nella stoppa [13]. A lungo andare i compagni di lui si erano stancati, anche per via di quelle lozioni e quelle acque di colonia chiuse nell'armadietto dello spogliatoio. “Sa fare tutto. Peccato che lo faccia nel momento sbagliato", diceva Vanderyecken, mentre Pfaff, il portiere, sbuffava e raccontava in giro che “non mi va di giocare con uno che in campo ha paura di spettinarsi". Fu una coltellata del destino fargli perdere a centrocampo il pallone decisivo. Glielo portò via un ragazzino di diciassette anni del quale inizialmente non si comprese neppure il vero nome, Orazio Pánama diceva fosse Nascimento, dalla panchina invece lo chiamavano Pelé. E mentre i difensori belgi corsero tutti in avanti per far scattare il fuorigioco, uno di loro - Gerets - infilò il piede in una tagliola lasciata sul prato da un contadino a caccia di ladri d’uva. Nascimento gli venne via senza problemi e passò il pallone all’amico con il numero sette, sotto i piedi del quale apparve una specie di sentiero fatto di briciole, che ne anticipava il cammino e lo rivelava agli altri. Eppure, pur sapendo con esattezza grazie alle molliche dove stesse andando, nessuno riusciva a prenderlo, nessuno riusciva a prendere Garrincha. Chi lo vide quel giorno [14] ricorda che una volta dribblato tutto il Belgio, portiere compreso, fermò il pallone sulla linea di porta, voltò le spalle e se ne andò, lasciando a uno dei compagni più ambiziosi il compito di spingerlo in fondo alla rete. Garrincha aveva altro per la testa. Tornò sui propri passi e si fermò un poco fuori area, preoccupato solo di stabilire se il piede di Gerets sarebbe mai più tornato quello di prima[15].

Il tabellino della partita
Belgio 1982/1986 vs Brasile 1958 0-1
Belgio: Pfaff 6; Gerets 5, Vervoort 6.5; Renquin 6, Meeuws 6.5, Demol 6, Vercauteren 6 (dal 46’ Van der Elst 6.5), Van Moer 6.5 (dal 79’ Coeck s.v.), Ceulemans 5.5, Scifo 7, Vandenbergh 6 (dal 57’ Vandereycken 6).
Brasile: Gilmar s.v., Djalma Santos 6.5, Nilton Santos 6; Zito 6, Bellini 6, Orlando 6; Garrincha 7, Didì 6, Vavà 6 (dal 75’ Altafini s.v.), Nascimento oppure Pelé 6.5, Zagallo 6.
Arbitro: Kepa Isasi Laka (basco di Francia)
Reti: 86’ Altafini.

Note al testo
[1] Il colpevole creatore del mondo di Alegem si chiama Hugo Claus (in Corrono voci, 2006). ^
[2] Il 6 maggio 1982 Guy Thys dichiara in una intervista a Gianni Mura, su la Repubblica: “Per me, il calcio è una cosa semplice: o si è più forti degli avversari o si cerca di renderli più deboli, più insicuri. Il fuorigioco non è un’invenzione nostra, è nel regolamento. So che in Italia vi siete stupiti vedendolo applicare con tanta sistematica attenzione”. ^
[3] Le frasi del centrocampista belga sono tratte da un’intervista a Nino Petrone, per il Corriere della Sera, del 21 giugno 1980. ^
[4]La descrizione è di Gian Antonio Stella su Corriere della sera del 19 giugno 1990. Scrisse: “Placido, sornione, ironico. (...) Un anziano gentiluomo d’altri tempi. In pace con se stesso e con gli altri. (…) Dalle sue parti lo chiamano affettuosamente Monsieur Cigare, per quel Davidoff che ha sempre tra le labbra e che non posa, dicono, neppure quando pedala per la campagna fiamminga con la moglie. Gli piace la buona birra e non chiude un pranzo o una cena senza un bicchiere di whisky di marca. Dice di non avere hobby: “Non ho mai avuto il tempo per coltivarne uno”. Passa giornate intere davanti al televisore, guardando e riguardando infinite volte i videotape delle squadre che gli interessano. Se gli chiedi se ha qualche virtù ti risponderà sempre: Forse il buonsenso”. Ma Giorgio Comaschi su Repubblica qualche giorno dopo scrive che “sembra uno dei cattivi di James Bond”. ^
[5] Stessa intervista della nota numero 2. ^
[6] Ancora Thys a Mura: “Mi lasci spiegare com’è nata la tattica in questione. È nata nel ‘78, quando nel girone di qualificazione agli europei dovevamo affrontare la Scozia. Gli scozzesi - con Jordan e Dalglish - erano pericolosi specialmente di testa. Così abbiamo deciso di uscire tutti in avanti per impedirgli di fare il loro gioco. O scattando sul cross dall’ala o anche prima, sul lancio all’ala. È riuscita, questa trappola, a meraviglia, anche venti volte di fila gli scozzesi ci sono cascati. (...) In sostanza, la prego di credermi, non è che il gioco del Belgio sia il fuorigioco. È un’arma in più, che usiamo quando ci sembra utile, con realismo”.^
[7] Il 20 gennaio 2002 scrive Alessandro Tommasi su Repubblica: “Non colpiva la fantasia, Vavà, la sua essenzialità e il suo opportunismo dentro l'area degli avversari facevano sì volare le squadre per le quali giocava ma non scaldavano il cuore”. ^
[8] Gianni Brera scrisse in “Il calcio azzurro ai Mondiali”: “Ogni avversario era marcato ad personam. Gli schemi fondamentali consistevano nell’apertura di Didi verso Garrincha o nell’affondo basso per vavà o Pelé. Quasi sempre era Garrincha a scattare dopo una irresistibile finta sull’uomo e a crossare da destra secondo che consentiva la situazione in area avversaria (...) Venne chiamato questo modulo il 4-2-4: ma erano balle. In realtà Zagalo, al sinistra, faceva anche il terzino, e quasi sempre si offriva ai disimpegni di tutti, punte comprese. Feola pretendeva rigida equidistanza fra i reparti:la sua squadra era sempre corta e mai si stracciava in avanti. I due terzini d’area non avevano libero: lo diventava uno di loro quando l’altro entrava in tackle. Giocatori di grande classe, in quella squadra attentamente schiumata dalla generosa piattola del calcio carioca e paulista, ve n’erano 4 o 5 (...) si ispirava a un rigido geometrismo difensivo”. Il 13 gennaio del 1992 su Repubblica aggiunse: “Vicente Feola allestì uno squadrone rigidamente impostato sul catenaccio che aveva imparato da Guttman, venuto un anno prima dall'Italia: al posto di 3 pinchi chiamati terzini ne mise 4 in linea, però i due centrali (sanciti dal mezzo sistema italiano e dal catenaccio di Rappan) sapevano entrare in prima e in seconda battuta secondo la direzione dalla quale provenivano gli avversari con la palla. In quel lontano 1958 quasi nessun critico sapeva capire come andassero le cose nel calcio. Il Brasile trionfò per l'ignoranza tattica degli avversari oltreché per la bravura dei suoi componenti”. ^
[9] L’episodio è stato raccontato da Fabio Monti sul Corriere della sera il 29 aprile 2014. ^
[10] “Non è mai stato un giocatore che piaceva alle folle ma ha sempre avuto il lampo di genio che può rovesciare una situazione. L’ultimo messicano del calcio belga” scrisse Jacques Hereng, su Le Soir, il 6 febbraio 1980. Massimo Fabbricini, su Corriere della sera il 28 giugno 1982: “Il piccolo burattinaio belga, maestro di quel gioco forse non elegante né entusiasmante, gatto di tanti “eccoti la palla, ridammi la palla”, che non possono non rammentarci il miglior Frustalupi di casa nostra, non fa promesse di sconquassi ma appena sotto voce si propone come lillipuziano capace di incatenare Gulliver”. ^
[11] Brera si era spinto a considerare il Belgio una squadra quasi gemella dell'Italia, disposta come "santo difensivismo comanda" . I suoi calciatori gli parvero negli anni "generosi e grintosi fino alla cattiveria", poi "marpioni" e ancora "smandrippati", fino alla definizione di "squadra monotona" in Messico nel 1986. Ma vedeva Scifo come “un normotipo vicino al longilineo, non alto di statura: corre armoniosamente, levando le ginocchia come un lipizzano: tratta la palla con sapienza inconfondibile (...), stilisticamente a mezzo tra Maradona e Rivera: del primo non ha forse il genio goleadoristico, del secondo non ha la potenza del lancio (...). Questo sicilianuzzo dal nome strano, sicuramente deformato dall’arabo, è un fuoriclasse precoce come tutti i fuoriclasse, da Meazza a Pelé, dallo stesso Rivera, peraltro un po’ troppo riluttante a correre, al divino aborto Maradona, per tacere di Angelillo, nazionale argentino a 16 anni, e di Pierin Boniperti, che se non fosse stato riccotto di nascita si sarebbe subito sacrificato a centrocampo assurgendo a livelli inimmaginabili". ^
[12] Definizione di Emanuela Audisio, su Repubblica, il 23 aprile 1987, quando scrive: “L'aver dovuto scegliere un'altra nazionalità era stato un piccolo trauma. (...) Scifo si camuffa, troppo, non parla molto, non lega con gli altri, forse come capita a tutti i precoci è ancora inconsapevole di sè”. Così Maurizio Crosetti il 13 giugno 1993: “Troppo italiano per essere belga, troppo belga per essere italiano, troppo bravo per essere normale, troppo incompleto per essere fuoriclasse. Il destino di Vincenzo Scifo è fermarsi sempre a due passi da qualcosa di definitivo, in una strana atmosfera di incompiutezza”. ^
[13] Copyright di Gianni Mura. Intervistò Scifo il 15 giugno 1984 e gli chiese dell’acquisizione della cittadinanza belga. La risposta: “Sono contento ma mi dispiace”. ^
[14] Gianni Brera in Mezzo secolo di Mondiali: “Garrincha fintava la partenza sulla destra e coin un fulmineo scambio toccava di destro per l’inizio del dribbling all’interno: poi faceva gioco per gli altri o segnava. Secondo quello che mi ha dichiarato lo stesso Pelé, il prodigioso Garrincha era ormai in grado di colpire una bottiglia da venticinque metri. Vinto il dribbling e fatto il cross, il suo compito era finito”. Jorge Amado su Tuttosport dell’11 dicembre 1993: “Garrincha, grande asso, è stato un personaggio pittoresco e drammatico. Dallo stile personalissimo, non si sono più viste giocate simili alle sue”, così Jorge Amado a Tuttosport. ^
[15] In Ode a Mané scrive Darwin Pastorin: “Tu sei stato il primo calciatore brasiliano a spedire il pallone in fallo laterale per permettere ai medici e ai massaggiatori di soccorrere un avversario infortunato. Ma quanti ricordano questo episodio della tua vita?”.^

leggi anche
Gascoigne e le due maglie di Pelé
Platini e la barriera di piume
Meazza, Kempes e le matite spezzate

Nessun commento: