giovedì 22 febbraio 2018

Hanno tagliato le scarpe a Valderrama

Illustrazione a cura di @a_jack_drawings (Instagram)
Qualificazione ai sedicesimi: Algeria 1982 vs Colombia 1990-1994
Dove si riflette sulla vanità del colpo di tacco

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Ventidue paia di scarpe da calcio non si trovano dalla sera alla mattina con la tomaia tagliata all'altezza della punta, tutte là, per una combinazione. Sin dal primo istante fu chiaro a tutti che non poteva trattarsi di un caso, né di una qualunque altra circostanza che escludesse un movente, un mandante e un esecutore. L’evento eccezionale, alla vigilia della partita più importante nella storia del paese, scatenò la fantasia del popolo e di quelli che avevano intenzione di guidarla.
I conservatori parlarono di un’azione dimostrativa agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e incolparono i leader della lotta contadina impegnati contro le multinazionali della frutta. I liberali sostennero l’evidenza di un’impronta reazionaria affrettandosi ad attribuirla ai vertici delle forze militari in pensione, spaventate si disse dalla gioia che il calcio avrebbe messo in circolo nella vita della nazione. Su un trenino giallo a tre vagoni partito alle undici del mattino dalla vallata, procedendo a non più di trenta chilometri all'ora, dopo un viaggio umido e lento nella terra dei banani e richiamato dalla solennità di quel mistero, giunse allora allo stadio di Macondo il Grande Scrittore, seguito da centinaia di persone in moto e in bicicletta lungo la strada che alla ferrovia correva parallela.
Alla ricerca dell’ispirazione per un nuovo romanzo dopo anni di silenzio, Rafael Vega Minat si presentò al cospetto delle scarpe sfregiate con la solita guayabera fuori dai calzoni e un berretto da baseball bianco calato sulla fronte [1].

Rabah Madjer. Detto il tacco di Allah. Una specie di leggenda nata dal colpo di una sera [2], un momento effimero scolpito nel tempo solo perché un pallone era finito in quel modo dentro una rete, che in fondo è quanto basta al calcio affinché se ne possa parlare per una vita. Vega Minat espose i suoi sospetti sull'ultimo numero della rivista Izquierda Latina e gli algerini non la presero bene. I suoi romanzi cominciarono a essere bruciati nelle piazze di Dréan, l’ambasciata pretese scuse ufficiali, e fu in questo clima che le squadre dopo tre giorni andarono finalmente in campo, all'interno del Cimitero delle Schedine, un posto dove da anni venivano mandate al macero milioni e milioni di colonne piene di pronostici mai azzeccati. Era una specie di paradiso in terra agli occhi di Freddy Rincón, che aveva l’abitudine di compilarne ma non giocarne [3], perché diceva che non gli sarebbe mai capitato di vincere dei soldi, e che perciò alla delusione lui preferiva cento volte un rimpianto.
Silenzioso, pensieroso, ma soprattutto diffidente, aveva attraversato le campagne di mango con la certezza che alla fine si trattasse di una furbata escogitata dagli avversari. Alla stazione dribblò bottiglie di whisky, tamburi, flauti, la folla in delirio che lo accoglieva e i bacini sfrenati delle ragazze che per lui ballavano la cumbia; e quando finalmente fu seduto alla tavola della mensa di una scuola elementare dove gli avevano preparato pesce, insalata di avocado più un dolce di cocco e limone, sbottonò il suo sguardo profetico sulla realtà per esporre una tesi: “Sono stati loro. Gli algerini. Vogliono che la partita si giochi solo di tacco”. Il motivo a Vega Minat era chiaro. “Perché hanno Madjer”.

Senza la punta delle scarpe i colombiani studiarono un piano per esprimere ugualmente il gioco che li aveva resi famosi [4]. Nei giorni che precedettero l’incontro, Francisco Maturana, dentista allenatore e guru della squadra, riuscì a convincere i suoi giocatori che non c’era nulla da temere, che il terribile Madjer di fatto sarebbe stato innocuo. “Esiste il gol di piede”, così parlò, “di testa, casomai il gol segnato con la mano, ma il tacco non è una parte del corpo. Noi siamo chiamati al dovere della precisione. Il gol di tacco non esiste. La palla si colpisce col tallone, ma il tallone ci ricorda Achille, e dunque una debolezza”. Potevano da una debolezza mai subire un gol? Potevano. Quando in realtà la cosa avvenne, i colombiani si affannarono prima intorno a Madjer che riportava la palla al centro, poi corsero a protestare dall'arbitro affinché annullasse un gol che celebrava la vulnerabilità dell’uomo, senza peraltro riuscire a convincerlo della loro tesi. Appurarono, in compenso, che nulla vietava loro di colpire il pallone con la punta del piede, sebbene scoverchiata e ignuda, e così poterono ricominciare a mostrare le meraviglie della loro intesa. “Asprilla è come il parmigiano su un piatto di spaghetti” urlò in diretta alla radio Orazio Pánama [5], pazzo perduto per l’imprendibilità di un attaccante che si aggiungeva a un meccanismo quasi perfetto, un meccanismo che quando funziona incanta, oppure - come piaceva ripetere a Maturana - “che fa musica”. Una squadra quasi obbligata a divertire per costruire una nuova identità sociale e collettiva, contro i cliché e le sentenze popolari [6].
Gli algerini avanzavano con una manovra fatta di quell'unico gesto sfacciato, sublime e insieme insidioso, lungo il fragile confine che esiste tra la sua efficacia e l’esibizionismo. Ma il colpo di tacco stavolta non poteva dirsi frutto della vanità, era quasi una scelta obbligata, a meno di non volersi annerire come i colombiani l’unghia dell’alluce all'impatto col pallone di cuoio. Rafael Vega Minat scese negli spogliatoi durante l’intervallo per portare alla squadra il sostegno suo, quello del mondo delle lettere e della nazione intera, oltre che per condurre i giocatori alla scoperta del ghiaccio. Fu lui in persona a distribuire i cubetti da sistemare sui letti subungueali in stato di ematoma, all'improvviso sentendosi ridicolo perché stava diventando un hincha, un tifoso in mezzo agli altri [7]. Poi sminuzzò mezzo chilo d’aglio, lo impastò a foglie di arnica montana e ordinò che l’intruglio venisse applicato sui piedi con un bendaggio per non meno di trentacinque minuti, iniziativa che costrinse l’arbitro, un omeopata dello Yucatán, a far cominciare il secondo tempo con un poco di ritardo.
Con il gesto più rapido che gli fosse mai toccato in vita sua, Carlos Valderrama si rimise in piedi dalla panca con lentezza e giurò al Grande Scrittore che nel secondo tempo avrebbero pareggiato. “Io non voglio vedere il pareggio” lo spiazzò Vega Minat, “io voglio vedere un nostro colpo di tacco su calcio di rigore”. Offriva per l’impresa una discreta cifra e ai calciatori colombiani quasi andarono di traverso i triangoli di ananas che si stavano passando sulla punta di un coltello. Con gli occhi glaciali, il viso livido e le labbra pietrificate, si voltarono tutti verso Maturana, lo fissarono smarriti e dal movimento minimo di una palpebra credettero di capire che anche lui era d’accordo, firmando allora fra di loro un patto irriferibile, come spesso succede se c’è un colpo di tacco di mezzo [8]. Le cose si fecero più complesse quando al rientro in campo i colombiani si accorsero che durante l’intervallo, mentre loro curavano le unghie, gli algerini avevano curato le scarpette. Il portiere di riserva era sceso al mercato e ne era risalito con due chili di pelle di merluzzo, cotenna di maiale e cartilagine bovina, gli ingredienti perfetti per produrre una colla micidiale, in grado di attaccare fogli di cartone e sughero sul cuoio devastato. Non volevano solo vincere, gli algerini volevano stupire [9]. Quando una raffica di vento da 45 nodi spazzò via camini, tegole e fili telegrafici, disperdendo all'interno del Cimitero l’intera collezione di schedine sballate dell’ultima metà del secolo, Bernardo Redín fu il solo tra i colombiani a cogliere il segno premonitore. Alzò gli occhi verso i travertini su cui sedeva la folla e incrociò lo sguardo di Florentina Grecía, la figlia del custode. Ne intuì il respiro di liquirizia e per la prima volta a 27 anni si sentì vecchio, lasciandosi sfuggire una risata che fece spavento alle civette. Maturana lo sostituì.
Per mortificare Madjer e gli algerini con un colpo di tacco su calcio di rigore, un calcio di rigore bisognava andare a prenderselo. Ma quando Asprilla cadeva si rialzava con una capriola e Valderrama si deliziava più dribblando che affondando. Un rigore venne invece fischiato al 90’ per gli algerini, quando ormai tutto era perduto, sia la partita sia il premio promesso da Vega Minat. Maturana prese da parte Higuita e tenne una breve dissertazione sulla questione in chiave psicanalitica, spiegando che la mezzaluna all'esterno dell’area era un simbolo femminile, e che la figura paterna dell’allenatore viene accantonata in favore del portiere, la madre, che dà fiducia perché può toccare la palla con le mani. “Non sappiamo marcare, non siamo aggressivi perché non abbiamo mai avuto guerre” [10]. Higuita finse di aver capito e si piazzò, mentre i galli del paese iniziarono a cantare nelle gabbie, sovrastando il suono delle campane con cui il vescovo annunciava al popolo e ai fedeli la fine dell’ultimo minuto.
  Fu nell'istante in cui Belloumi prese la rincorsa che a José René Higuita venne l’idea di prendere il mondo dal verso opposto e mostrargli la straordinaria follia dei portieri [11]. Mentre il pallone gli veniva incontro a mezza altezza, si tuffò in avanti con la testa, il busto parallelo al prato, le gambe piegate verso l’interno, le suole delle scarpe dritte e con la parte posteriore riuscì a parare il tiro. I compagni corsero ad abbracciarlo, e anche Maturana, perché tecnicamente si era trattato di un colpo di tacco su calcio di rigore. La partita era persa ma la scommessa era vinta. Molti anni dopo, Rafael Vega Minat gli fece una lunga intervista al magnetofono - il nastro deve essere ancora conservato in qualche stanza della biblioteca nazionale - non come reazione alla beffa di aver dovuto pagare lo stesso il premio, quanto perché, così giurò, da scrittore gli stava a cuore la comprensione dei processi creativi. A Maturana, Orazio Pánama chiese invece come avrebbe impiegato i suoi giorni futuri. “Tornerò a fare il dentista”, si sentì rispondere, “una professione nobile, perché consente al popolo di sorridere felice”.


il tabellino della partita
Algeria 1982 - Colombia 1990/1994 1-0
Algeria: Cerbah 6; Merzekane 6, Mansouri 6; Kourichi 6, Guendouz 6.5, Fergani 6; Dahleb 6, Bensaoula 6 (dall’82’ Larbes), Madjer 7, Belloumi 7, Assad 6.
Colombia: Higuita 7.5; Herrera 6, Perea 6; Escobar 6.5, G.Gomez 6, J.Gomez 6; Redìn 6 (dal 77’ Valenciano s.v.), Rincón 7, Asprilla 7, Valderrama 7, Valencia 6.5.
Arbitro: dottor Santiago Quintana (Yucatán)
Reti: 25’ Madjer

note al testo
[1] La scena è ispirata alle cronache sul ritorno di Gabriel García Márquez ad Aracataca nel maggio del 2007. ^
[2] Il riferimento è al gol segnato con il tacco dall'algerino per il Porto nella finale di Coppa dei Campioni del 1987 contro il Bayern.^
[3] "Quando non aveva più nulla da fare passava ore riempendo schedine di calcio che molto di rado giocava". (Gabriel García Márquez, Tramontana, in Dodici racconti raminghi).^
[4] Il 18 giugno 1994 su Repubblica così scrisse Maurizio Crosetti: “Ha dentro l'arte del Sudamerica e la forza organizzata dell'Europa. Perché fa cantare il pallone e sa mostrare i denti. (...) Maturana è quello che ha inventato e imposto il gioco positivo, cioè la zona pura cadenzata dal tiempo toque, un tocco al pallone e subito pronti a smarcarsi, una specie di danza. "Ho imparato ammirando il Brasile del ' 70, voglio un calcio allegro però attento. Questa è la più forte Colombia di sempre”. Il poeta colombiano Darío Jaramillo Agudelo disse: “Il nostro calcio è supendo, però al rallentatore”.^
[5] La definizione fu inventata durante i Mondiali del 1994 dallo scrittore americano James Reston jr.^
[6] Ancora Crosetti: “La nazionale che deve dire grazie persino alla buonanima di Pablo Escobar, ex boss del cartello di Medellin, per una frase che è diventata programma: "Caro Maturana, tu sei il nostro allenatore e allora ricorda che io non voglio stranieri, non ne voglio neanche uno". E infatti al Nacional Medellin non ne arrivarono più, neppure un'ombra di giocatore che non fosse nato da quelle parti. Alla lunga, la nazionale ci ha guadagnato. Eccome. La nazionale che aveva un portiere clown, René Higuita, finito in galera perché fece da intermediario nel rapimento di una bambina. La nazionale che esprime un calcio magnifico e terribile, quello di un paese dove nulla può essere separato dalla vita. E in Colombia la vita è ancora morte. In Colombia, 27 mila ragazzini battono il marciapiede. In Colombia, tremila persone all' anno vengono prese a mitragliate dai sicarios. Prima che morisse Escobar, il 3 dicembre scorso, erano 30 mila”.^
[7] Questo imbarazzo di Gabriel García Márquez verso il calcio venne espresso in una riflessione intitolata “El Juramento”.^
[8] Nel romanzo di Sergej Samsonov "Un fuoriclasse vero", il diciannovenne protagonista Semën Šuvalov scommette con Ronaldinho che riuscirà a farne addirittura tre in una stessa azione. Il pegno: baciare il sedere a Xavi.^
[9] Emanuela Audisio, la Repubblica, 7 dicembre 1985. “Il calcio qui non ha vie di mezzo, ha un codice semplice. È una questione di onore e disonore. Il risultato è l'ultima cosa che interessa. Onore è un tunnel fatto, disonore è un tunnel subito. Se è vero come diceva Edith Piaf che l'uomo in cerca di applausi è stato un bambino che ha ricevuto una carezza di meno, c'è da dedurre che gli algerini nella loro infanzia hanno ricevuto molti schiaffi. In campo si vedono molti dribbling, molti colpi di tacco (anche in difesa), molte finte, molti egoismi decadenti”.^
[10] È la relazione che l’allenatore colombiano tenne a Firenze, al centro tecnico di Coverciano, nell'ottobre del 1990.^
[11] Nella sua invettiva contro il Subbuteo, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, in Gloria agli eroi del mondo di sogno, scrive: “E il portiere? Era attaccato a una staffa plastificata anziché alla solita base a forma di mezzaluna che intartarugava gli altri dieci compagni, e se ne stava sempre in ipertensione da tuffo con le braccia alzate, come gli impiegati di banca con una pistola puntata al petto nel bel mezzo di una rapina e, neanche a dirlo, nemmeno poteva uscire dalla porta. Tutto inaccettabile, dannatamente statico, approssimativo. Come si poteva trattare così uno dei ruoli più straordinari in qualsiasi sport di squadra?”.^

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