venerdì 16 marzo 2018

Cubillas, Varela e il pallone che guarisce l'acufene

Obdulio Varela nell'illustrazione
di @a_jack_drawings (instagram)

Sedicesimi di finale: Perù 1982-Uruguay 1950
Dove si dimostra che un gol ha quasi sempre a che fare con il sesso e con la morte

Il giorno della partita i giocatori del Perù si svegliarono tutti con un fischio all'orecchio destro, ma prima che se lo rivelassero l’uno con l’altro passarono sette ore e mezza. Geronimo Barbadillo se ne accorse mentre sistemava un paio di statuine in terracotta alle pendici di una montagna, affinché proteggessero i suoi vitigni dalla tramontana, e all'inizio scambiò il sibilo per una folata di vento. Juan Carlos Oblitas Saba e César Augusto Cueto Villa stavano giocando a ping pong usando come tavolo l’altare in legno di una chiesa sconsacrata, scoprendo così che mandare avanti e indietro una pallina sopra una rete è il passatempo più crudele, perché chi pensa perde senza via di scampo [1].

Teofilo Cubillas
Teofilo Cubillas, il capitano, era in coda alla posta a ritirare la pensione quando sentì arrivare questo rumore sottile che in genere fa un microfono accanto a un altoparlante, e chiese di soprassalto alla direttrice di spegnere una radio che non c’era [2]. Julio César Uribe era invece impegnato nell’attività più atroce che possa capitare a un calciatore prima di una partita, stare delle ore a non far niente, e nell’istante in cui gli parve che dentro la corteccia acustica cerebrale fosse entrato un treno con il suo vapore, si frugò le tasche per controllare d’aver comprato già il biglietto [3]. A casa sua, intanto, il portiere Ramón Quiroga stava calciando dei rigori contro la propria ombra riflessa sopra il muro [4], sapendo che le avrebbe fatto gol o che lei avrebbe parato, e che dunque avrebbe in ogni caso vinto ma anche in ogni caso perso, senza che nessuno almeno stavolta potesse dubitare della sua buona fede [5]. Fu lui ad aprire la questione, dopo il tramonto, nello spogliatoio, mentre la nazionale peruviana si vestiva della sua banda rossa trasversale su sfondo bianco, giurando d’essere certo di aver sentito l’arbitro fischiare a centrocampo l’inizio della gara. “Anch’io” rispose Oblitas, e così Cueto, Uribe, Barbadillo, uno per uno tutti, eccetto Marcos Calderón Medrano ed Elba de Pádua Lima meglio conosciuto come Tim, i due uomini chiamati a guidare la truppa dalla panchina. Luis Zacharias detto Lucho, un professore di ginnastica diplomato a Colonia al quale era stato delegato ogni aspetto scientifico della preparazione, si appellò a ogni sua conoscenza e senza tentennamenti sentenziò: “È una stregoneria”. I responsabili, a sentir lui e senza alcun dubbio, abitavano nello stanzone accanto. Erano quegli uruguagi che chissà come nel ‘50 avevano battuto il Brasile in casa sua - chissà come, poi, solo per dire, giacché era evidente adesso ai peruviani che di qualche sortilegio pure all’epoca doveva essersi trattato.

Disegno di Mario Arrasco
(da lanuez.blogspot)
Per volere del generale Francisco Morales, furono convocati in un istante e messi a disposizione della squadra i più potenti stregoni del Paese da Huayna Picchu, il centro magnetico della terra [6]. Arrivarono in tredici, e dopo aver imbottito una pasta sfoglia di sambuco, chirimoya, unghia di gatto, carne d'oca e alghe fluviali, diedero all’amalgama una forma umana e lì per lì, senza neppure un tovagliolo, fecero di esso il loro pasto. L’estremo destro Juan Muñante, detto il Jet o il Cobra, fu incaricato di riempire con una siringa il pallone di una mistura misteriosa, si disse acido nitrico, o forse acqua e artemisia, papavero da oppio [7]. “A cosa serve?” domandò Hector Chumpitaz ai tredici santoni, ma se non l’avesse visto con i suoi occhi poco dopo in campo, alla risposta ricevuta in lingua quechua di certo non avrebbe mai creduto. Così modificato dai guaritori dell’Urubamba, il pallone aveva il potere di trasferire l’acufene da un peruviano a un uruguagio, ogni volta che uno di loro lo avesse colpito con la testa. Il primo a giovarsene fu Hugo Sotil, che si liberò in una volta sola del fischio, della pigrizia e del rimorso di aver lasciato da soli i suoi fratelli a vendere pop-corn per le vie di Lima [8]. Segnò così tre gol in venti minuti, approfittando del fatto che con un’incornata dietro l’altra gli avversari erano finiti tutti in ostaggio di allucinazioni auditive, sentendo voci, musiche e fischi arbitrali che non c’erano, fermandosi quando non c’era da fermarsi e prendendo il pallone con le mani a gioco in corso. Informato alla radio dalla voce di Orazio Pánama, il popolo scese in strada a festeggiare già alla fine del primo tempo, ormai certo della vittoria, dimenticando che gli uomini poveri sempre poveri sarebbero rimasti, e che alle donne sarebbe comunque toccato uscire ogni mattina per fare la spesa [9]. Invece l’intervallo chiarì le idee agli uruguagi. Fu il vecchio Obdulio Varela a intuire la natura della magia, e per disinnescare il sortilegio richiamò alla memoria certi canti che sua nonna intonava durante i giorni della vendemmia, quando alla cultura contadina lui correva a prestare i suoi piedi da centrocampista [10]. Gli era rimasta da allora la sensazione che tutto si potesse invertire, finanche il corso della natura e degli eventi umani, a patto di conoscere i codici e le segrete lingue per dialogare con la buriana e la maleducazione. Don Obdulio volle accanto a sé Schiaffino e Ghiggia, per reimpiegare la profana trinità del Maracanazo, poi convocò Rubén Morán, che aveva vent’anni nella finale del ‘50 e venti dunque ne avrebbe sempre avuti, nei secoli dei secoli, amen. “Quelli là dentro non esistono” mormorò il capitano, per convincere prima se stesso e dopo gli altri che gli stavano vicino. “Falla qui sopra” ordinò al ragazzo, che non se lo fece dire una seconda volta, obbedì al suo jefe e urinò sopra il pallone che tante volte aveva sognato da ragazzino, sfogliando le pagine della rivista El Gráfico. “Ecco. Qualunque cosa fosse, ora la magia peruviana è cancellata” proclamò Obdulio come fosse stato il papa dalla loggia o un dittatore affacciato al suo balcone, e tutti gli uruguagi gli credettero, tutti erano di nuovo colmi di fede e di speranza. Poi, come Dio volle, incominciò il secondo tempo.

Obdulio Varela
(da alonsoramiro.wordpress.com)
I triangoli dei peruviani smisero di essere perfetti [11]. All’improvviso si fecero scaleni, senza più angoli dall’ampiezza misurata, senza armonia né congruenza nelle linee di passaggio. Uribe si guardava attorno come un discepolo di Pitagora all’improvviso privato del maestro, ma soprattutto intronato senza rimedio dall’acufene che si era rifatto vivo a destra e ora spuntava inatteso anche a sinistra. “Lo sentite anche voi?” chiese a Cubillas, a Sotil, a Barbadillo, innescando in loro una nuova consapevolezza e un nuovo terrore, perché quasi sempre le due cose viaggiano insieme. “Sarebbe stato meglio non saperlo” mormoró Ramón Quiroga con i piedi saldati alla linea di gesso, e non c’era più alcun colpo di testa uruguagio capace di liberare né lui né i suoi compagni dalla superstizione. Tutto intorno allo stadio di Santa María si alzarono l’odore della morte e un rumore nuovo. Gli abitanti delle case dalle persiane celesti, che dopo il terzo gol si erano serrati dentro, al buio, per non sapere cosa ne fosse della loro squadra, alla luce adesso tornarono ad aprirsi, spalancando i loro vetri offuscati e affacciandosi ai davanzali, in compagnia delle tazzine da caffè piene di cenere. Nel postribolo in cui si erano rifugiati gli uomini a caccia di un ultimo angolo di piacere, una luce gialla si alzò sfiorando fotografie e stampe; illuminò sul tavolo l’orlo delle catinelle e le anse delle brocche, un disordine di forcine, di pacchetti di sigarette, di saponaria, di pettini, di braccialetti, una rivista, una pila di monete, una scatola di cipria [12]. Gli amplessi si placarono perché l’Uruguay aveva segnato il primo, il secondo e pure il terzo gol, pareggiando con quei palloni in rete sia la partita sia il piacere che può dare il sesso [13]. Incapaci di fermare gli uruguagi con la magia, con le buone maniere e anche con le cattive, ai peruviani non rimase che accelerare la disfatta con una eutanasia calcistica senza precedenti [14]. Anziché affrontare i tempi supplementari, e dunque altri trenta minuti di assordanti fischi dentro la testa, Ramón Quiroga scelse di farsi scivolare un pallone morbido sotto l’intestino tenue, assegnando a un tiro di Varela senza pretese il compito di decidere non solo la partita ma anche la felicità e la disperazione di due popoli [15]. Una volta ritornati a Lima, gli sconfitti si sottoposero agli accertamenti più accurati per venire a capo del mistero, e risalire - sebbene a cose fatte - alla natura del fischio che aveva condizionato quei Mondiali. Una specialista messicana in audiologia e riabilitazione vestibolare, María Írpina Ciriello Impar, nipote di una guaritrice di Durango, scoprì che il fastidio scompariva giocando a carte per quattro ore al giorno, e che le sconfitte aiutavano a ristabilirsi prima, e a stare meglio al mondo.

Il tabellino della partita
Perù 1978/1982 – Uruguay 1950 3-4
Perù 1978/1982: Quiroga 4, Duarte 5.5, Olaechea 5; Chumpitaz 5, Salguero 5.5, Quesada 5; Sotil 8, Barbadillo 7 (40' st Munante 5), Uribe 6.5 (15' st La Rosa 5), Cubillas 6, Oblitas 6 (25' st Cueto 6).
Uruguay 1950: Maspoli 6, M.Gonzales 5.5, Tejera 5; Gambetta 5.5, Varela 8, Rodriguez Andrade 6; Ghiggia 7.5, Perez 5.5, Miguez 6, Schiaffino 7.5, Moran 6.
Reti: 2’ pt Sotil, 12’ pt Sotil, 19’ pt Sotil, 3’ st Schiaffino, 16’ st Ghiggia, 26’ st Ghiggia, 45’ st Varela


Note al testo
[1] Lo sostiene con parole più efficaci ed eleganti Juan Villoro in Dios es redondo, 2006.
[2] Sul Corriere d'Informazione, il 5 giugno 1978, Nino Petrone scrisse: "Ubriaca più un Cubillas che una botte di whisky. Del resto in fatto di stagionatura siamo lì: Teofilo il giramondo è l'equivalente d'un antico gioiello delle cantine scozzesi. Tutto sta a vedere che succede quando lo stappi:o è uno schifo o è una gran delizia, esattamente rara è la via di mezzo. Definire l'età è impresa impossibile. E' un mistero anche per i dirigenti della Fifa (...) Un opuscolo ti informa che ha 29 anni, nel comunicato precedente la partita le primavere sono trenta, in quello (sempre ufficiale) emesso dopo, sono trentuno. I colleghi peruviani ridono. Il rebus è fitto anche per loro: ma molti ridono come per dire che anche il massimo degli anni che gli accreditano ce l'ha per gamba. (...) È una gabbia di vecchi e simpatici matti, questa nazionale.
[3] Il 17 giugno 1982, su Repubblica, Mario Sconcerti scriveva: "Viene avanti palla al piede tentando il dribbling o cercando il triangolo. Non è veloce, ma ha una buona progressione. A renderlo estremamente pericoloso è la facilità con cui sa liberarsi in spazi stretti per poi concludere a rete anche da lunga distanza. Uribe ha comunque molto bisogno di conforto. Lasciato solo difficilmente può essere un uomo-partita, a meno di clamorosi spunti individuali. (...) Tim, il tecnico brasiliano che dirige i peruviani, dice che Cubillas è quella spalla di cui Uribe ha molto bisogno, uno dei pochi che parli il suo stesso linguaggio tecnico, l'ideale per restituire il pallone e “chiudere” il triangolo. A me Cubillas è sembrato la palla al piede di questo Perù che tra l'altro senza di lui maramaldeggiò a primavera. È vecchio (37 anni), più lento ancora di Uribe, abbastanza egoista da voler essere sempre mattatore.
[4] "Tiro ogni giorno contro me stesso cento calci di rigore. Grazia o disgrazia, prendo sempre il palo". (Gesualdo Bufalino, in Bluff di parole, 1994]
Una vignetta del 1978 su Quiroga
[5] Ramón Quiroga, argentino di Rosario, naturalizzato peruviano, fu sospettato di essersi venduto al suo paese di nascita dopo lo 0-6 subito dal Perù nella partita ai Mondiali del 1978. Bruno Pizzul, su Corriere dell'Informazione, il 21 giugno 1978 aveva scritto: "Quiroga, finora molto bravo, ha dichiarato che alla fine della carriera intenderebbe tornare nella sua città natale. In tal caso, sostengono i colleghi argentini, è meglio che non giochi. Se parerà tutto, i rosarini gli potrebbero rendere la vita diffciile; se viceversa si farò infilare da qualche gol di troppo, tutti potrebbero sospettare una sua colpevole connivenza con l'Argentina. Una forma di sottile terrorismo psicologico, come si vede".
[6] Il 22 giugno 1982, su Stampa Sera, un articolo siglato g.d.s. diceva: "Non si può pretendere che in Perù il calcio possa offrire campioni a getto continuo come avviene in altri paesi del sud america dove ha una ben maggiore diffusione. su un territorio di un milione e 300mila chilometri quadrati, e per una popolazione di circa 17 milioni, ci sono 17 squadre di prima divisione di cui 6 nella capitale Lima. (...) La situazione complessiva del paese non favorisce certamente né la diffusione di massa dello sport, né il perfezionamento dei già non troppo numerosi talenti naturali che saltuariamente emergono. Le condizioni economiche non sono certamente floride, pur non essendo disastrose come in altri Paesi dell'america meridionale. Il calcio rappresenta, come altrove, un espediente dal risultato pressoché garantito per distrarre l'opinione pubblica, interna ed estera, da problemi ben più gravi come, ad esempio, certe manifestazioni di violenza politica stranamente definite guerriglia, oppure terrorismo, oppure delinquenza comune a seconda della posizione politica di chi ne parla. (...) secondo quanto riferisce un giornale locale, l'Expreso, il 10 marzo scorso si sono riuniti i più potenti stregoni del Paese a Huayna Picchu, una località considerata il centro magnetico della terra. Clou della manifestazione sarebbe stata la simbolica libagione di un uomo vestito con la divisa della nazionale, mentre, intorno a li, i maghi della Sierra compivano strani e misteriosi rituali. E la qualificazione per la Spagna sarebbe il primo concreto risultato di questo cerimoniale". L'allenatore del Camerun, Jean Vincent, rivelò in conferenza stampa il 16 giugno 1982: "Si parlava tanto della superstizione dei miei giocatori; bene, dopo la partita col Perù c'è stato lo scambio delle maglie e i miei hanno trovato quelle dei sudamericani piene di medagliette, amuleti e santini".
[7] Juan Muñante aveva davvero intorno a sé una specie di aureola magica. Così Beppe Viola nelle sue cronache dall'Argentina nel 1978: "Detto anche el cobra perché nei suoi piedi si nasconde un veleno terribile da indirizzare verso le porte avversarie (pensa un po' cosa inventano i sudamericani...)". 
[8] A proposito di Sotil. Il cronista argentino Gerardo Barraza di lui diceva che "poteva dribblare un esercito nello spazio delle mattonelle del pavimento". Su Corriere dell'Informazione del 7 giugno 1978, Beppe Viola scrisse: "Di origine umilissima (vendeva pop-corn per le strade di Lima), il piccolo Sotil si è tolto di dosso il grasso eccedente e il complesso di inferiorità del periodo spagnolo (...). Franco Melli, 7 giugno 1978, su Corriere della sera: "È un centravanti arretrato, ha giocato nel Barcellona ed era molto affiatato con Cruyff, quando il club catalano vinse l'ultimo scudetto. Ma Cruyff non gradì la presenza di uno che aveva classe da vendere e però poca voglia di correre, visto che preferiva le eccitazioni e la penombra del tabarin a mattine sferzate da allenamenti intensivi. In un baleno Ugo Sotil si trovò fra le riserve e sentì sempre più acuta la nostalgia dei suoi altipiani".
[9] In un articolo su Repubblica del 2 giugno 1982, Oliviero Beha attribuiva a Tim la seguente frase: “Finiti i Mondiali saremo sempre poveri, l’uomo qui è tifoso ma la donna va a fare a spesa e se ne accorge, questa è una cortina di fumo sui nostri problemi”. Il ministro del Lavoro, Alfonso Grados Bertorini gli spiegava che “il nostro è l’unico paese dove il Totocalcio è fallito, perché è stato considerato un gioco e non un affare serio, pensi che i club erano considerati deformazioni borghesi e i militari volevano le squadre della fabbrica". Nello stesso anno, su El Comercio, Mario Vargas Llosa scriveva: "I popoli hanno bisogno di eroi contemporanei. Non c'è paese che sfugga a questa regola. Colta o no che sia, ricca o povera, capitalista o socialista, tutta la società avverte questa urgenza irrazionale di mettere su un trono idoli di carne e ossa davanti ai quali spargere incenso. Politici, militari, stelle del cinema, sportivi, cuochi, play-boy, grandi santi o banditi feroci, sono stati elevati agli altari dalla popolarità e convertiti al culto collettivo in quello che i francesi con una buona immagine chiamano i mostri sacri. Bene. I calciatori sono le persone più inoffensive tra quelle a cui si può attribuire questa funzione da idolo".
[10] Obdulio Varela, l'eroe del 1950. Il 20 luglio di quell'anno, su la Stampa, Vittorio Pozzo lo descrisse "un mezzo guarany, frutto di un incrocio indio". Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio raccontò: “La vittoria dell’Uruguay davanti a una folla come mai si era vista a una partita era stata senza dubbio un miracolo, ma il miracolo era stato opera di un mortale in carne e ossa chiamato Obdulio Varela. Obdulio aveva raffreddato la partita proprio quando stavano per essere travolti dalla valanga, e in quel momento si era caricato la squadra intera sulle spalle e con la sola forza del coraggio aveva remato controvento e controcorrente. Alla fine di quella giornata i giornalisti assediarono l’eroe. Ma lui non gonfiò il petto proclamando che eravamo i migliori e che nessuno avrebbe avuto scampo con l’artiglio charrùa. "E’ stato un caso", mormorò Obdulio scuotendo la testa. E quando tentarono di fotografarlo si girò di spalle. Passò quella notte bevendo birra, di bar in bar, abbracciato agli sconfitti, ai banconi di Rio de Janeiro. I brasiliani piangevano. Nessuno lo riconobbe. Il giorno seguente fuggì dalla folla che lo aspettava all'aeroporto di Montevideo, dove il suo nome brillava in un enorme cartellone luminoso. In mezzo a quella euforia, riuscì a passare inosservato travestito da Humphrey Bogart, con un cappello calato fin sul naso e un impermeabile con i risvolti sollevati". Su la Stampa del 15 marzo 1990 scrisse Gian Paolo Ormezzano: "Obdulio Varela, el jefe, il capo, uno straordinario centromediano metodista, fu il primo a ribellarsi all'idea di fare la vittima sacrificale e basta. Il commissario tecnico Juan Lopez fu il secondo, forse convinto dalla charra, la grinta di Varela, che alla fine del riscaldamento, in un prato vicino al Maracanà, i cui spogliatoi in condizioni pietose sconsigliavano un lungo soggiorno pre-match, disse ai compagni: "Ho voglia di vincere".
Il Perù ai Mondiali 1978
figurine Panini
[11] Vediamo come giocavano i peruviani. Gianni Mura, su Repubblica, il 30 aprile 1982: "Il Perù gioca a zona-pressing, un 4-4-2 molto elastico, infoltendo al massimo il centrocampo e basandosi su una fitta rete di passaggi brevi che tendono a propiziare l'affondo in zona vuota (di tutti o quasi: solo libero, stopper e terzino sinistro non passano la metà campo) oppure il lancio lungo e preciso. In questa specialità, che ha fruttato il gol nel più classico dei contropiede all'europea, sono bravissimi il mancino Cueto e Leguia. Una delle due punte (Uribe e La Rosa) torna a coprire, in caso di necessità, e all'attacco si incrociano molto spesso. Oblitas gioca alla Massaro, sulla fascia sinistra, piuttosto indietro, ma è puntuale negli inserimenti, come dimostrano le due reti, e, da due anni in Belgio, piuttosto abituato al gioco europeo. Giacinto Facchetti, su Corriere della sera, 11 giugno 1982: "Velasquez, il filtro, alla Marini, per intenderci. Lo chiamano il maresciallo, perché non soltanto è forte tecnicamente ma è uomo di comando. (...) In verticale, ancora più avanzato, ecco Cueto, mancino brevilineo, vero regista del complesso, chiamato il poeta dal sinistro d'oro: è il cervello, tutti i compagni lo cercano, il punto di riferimento della manovra è lui. (...) Sono curioso di rivedere alla prova Uribe, che tecnicamente è certo fra i più validi attaccanti sudamericani: ha la finta a rientrare di Rivelino, ma lui ce l'ha sul destro. Il suo limite, se ho capito bene, mi sembra caratteriale: se il clima della partita è propizio, si esalta, altrimenti tende a deprimersi perché, forse, non è un grosso combattente. Di Oblitas dirò che è la classica ala pendolare: è un mancino insidioso e la sua zona perativa è, stabilmente, la fascia sinistra del campo. Ha un bel tiro, sicuramente pericoloso. Ma le punizioni le batte Uribe, di destro: sono tese e potenti. Il difetto dei peruviani risiede nella prolissità delle trame a centrocampo". Franco Melli su Corriere della sera (7 giugno 1982) sottolineò che i peruviani erano stati "spesso premiati dalla Fifa per il loro gioco senza scorrettezze".
[12] Sono parole di Juan Carlos Onetti, in Raccattacadaveri, 1964).
[13] Osvaldo Soriano, in Pensare con i piedi, scrive: "Seppi poi che facevamo l’amore tutti i giorni, ma allora supponevo che vi fosse un solo modo possibile e che se lei lo avesse accettato, finalmente si sarebbe verificato il momento più glorioso dell’esistenza. E quell'istante. in una vita normale, è paragonabile solo a un altro istante, quando il pallone entra davvero in una porta per la prima volta, e non c’è Dio più felice di uno che esulta a braccia aperte urlando verso il cielo". 
[14]. Come giocava l'Uruguay 1950? "Era troppo misurato per entusiasmare. Il suo gioco veniva considerato vecchio e noioso. In effetti si fondava sul difensivismo più cauto: nulla veniva trascurato in difesa. le punte si affrettavano a tornare in centrocampo quando era conclusa l’azione. davanti ai difensori (i mediani sulle ali, i due terzini in area) il centromediano e gli interni facevano diagonale fittissima. Conquistata la palla, l’azione veniva ripresa con assidui palleggi: raramente si sprecavano lanci profondi, e solo a ragion veduta. (Gianni Brera, Il calcio azzurro ai Mondiali, Campironi editore, 1974) 
[15] "Il biondo faceva da portiere contro la porta di un garage; il bruno gli calciava un pallone nuovo fiammante. Para questa, Pluto, diceva. Pluto, piegato in due, con una smorfia drammatica, gesticolava, si asciuga a la fronte e il naso con le due mani, fingeva di tuffarsi, e quando riusciva a parare un tiro si metteva a ridere fragorosamente. Sei una checca, Tico - diceva - Per parare i tuoi colpi mi basta il naso. Il bruno fermava la palla col piede, la metteva abilmente in posizione, misurava la distanza, calciava e i suoi tiri raggiungevano quasi sempre la porta. Mani di pastafrolla - sfotteva Tico - farfallina. Questa parte con l'avviso: angolo destro e tiro curvo". (Mario Vargas Llosa, in La città e i cani, 1963). Juan Nuno in Veneracion de las astucias sostiene: “Una partita di calcio è più dolorosa e drammatica di qualunque altro gioco, perché in essa il tempo corre parallelo al tempo dell'esistenza umana. La passione che genera il calcio affonda le sue radici nell'occulta presenza della morte, che presidia ogni azione dell'uomo, e ogni volta queste azioni sono misurate con il passo del tempo".

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