lunedì 10 febbraio 2014

Beara, il ballerino con le mani d'acciaio


Girava una barzelletta in Jugoslavia. Un bambino si presenta da Tito e gli chiede due autografi. Il maresciallo tira fuori la penna dalla tasca e subito glieli firma, orgoglioso, sorridente. Ma la curiosità è forte. Vuole capire. Domanda perché. Insomma: perché proprio due. Perché per due autografi tuoi, gli risponde il bambino, a scuola me ne danno uno di Beara. Vladimir Beara sono io.



Tutto è cominciato quasi per caso. Il calcio mi piaceva, andavo spesso allo stadio di Spalato per vedere l'Hajduk, anche se a quei tempi non vinceva un campionato da circa vent'anni. Andavo a letto ascoltando le storie dei gol di Ljubo Benčić, tutto m'avevano raccontato e tutto sapevo di Leo Lemešić. Ho imparato prima ad amare quella maglia biancazzurra e poi le donne. Non c'era chi non fosse dell'Hajduk al mio villaggio d'origine, Zelovo, dove i vecchi lavoravano il legno per trasformarlo in pipe. È stato l'arrivo delle sigarette a renderli più poveri. Da ragazzo con gli amici ci presentavamo agli allenamenti, non come adesso che non ti lasciano entrare. Quel giorno in cui tutto cominciò, non ricordo chi di loro disse: Andiamo al campo a vedere Frane Matošić. Era il nostro idolo, c'eravamo rimasti male quando si era trasferito in Italia, al Bologna, fortuna che poi era ritornato. Ci sistemammo in tribuna, stava cambiando la mia vita.

Successe che quelli dell'Hajduk decisero di esercitarsi sui calci di rigore, non so per quale combinazione di eventi i portieri non erano disponibili. Uno dei dirigenti parlottò con l'allenatore e con la testa bassa s'incamminò verso la tribuna. C'è qualcuno di voi che sa andare in porta - domandò alla folla - guardando nel mucchio. A questo erano ridotti. Nel mucchio c'ero io. Mai stato in porta prima. Però ballavo. Avevo preso lezioni, convinto com'ero che la danza avesse a che fare con il calcio, che potesse esserci un legame. Amavo il ritmo, danzare con i piedi fa danzare anche la mente. A cosa ti serve ballare, mi chiedevano gli amici. Non lo so, gli rispondevo, non lo so di preciso, di certo a voi non serve a niente non farlo. Arte, questo era. Movimento. Sapevo di essere agile. Sollevai il mio braccio destro prima degli altri e dissi Vengo io. Andai in campo e diventai un portiere.

Il resto è successo in fretta. L'Hajduk mi offrì un contratto vero, di Frane Matošić sono diventato compagno di squadra, così come di Bernard Vukas, un ragazzo di Zagabria appena arrivato dal Nogometni Klub. Ma la gente amava me, i miti sono sempre figli del mistero. Amavano le mie parate eleganti e spettacolari, per tutti ero il ballerino dalle mani d'acciaio. Vincemmo il primo dei nostri tre campionati nel '50, un titolo che mi servì a essere convocato per i Mondiali in Brasile. Il ct mi chiamò come riserva di Srđan Mrkušić, per il quale tifavo quando aveva giocato brevemente nell'Hajduk, ma che poi era stato trasferito alla Stella Rossa di Belgrado: anzi fu tra i suoi fondatori. Era già stato il numero uno della nazionale del regno di Jugoslavia e adesso lo era per quella della Repubblica socialista di Jugoslavia. Il nostro Paese cambiava, lui era sempre lì. Mi lasciò il posto qualche mese dopo i Mondiali, avevo 22 anni, lui 35, si laureò in scienze forestali e si dedicò ai prati dei campi di calcio.

Il mito, vi dicevo. Il mio venne creato nel novembre del '50, quando giocammo con la nazionale contro l'Inghilterra. Avrebbero dovuto schiacciarci come tabacco nelle pipe di Zelovo, invece finì 2-2 e gli inglesi ancora ricordano come respinsi a mani aperte sopra la traversa un tiro di Hancocks. Non mi piacevano le barriere, sui calci di punizione non le mettevo quasi mai. Non ti lasciano veder partire il pallone e danno un riferimento a chi tira. Meglio senza. Non ho mai cambiato idea. Dicevano che fossi nato per dare spettacolo fra i pali, anche se a me piacevano di più i portieri che sapevano in anticipo cosa sarebbe successo, quelli che si facevano trovare là dove il pallone sarebbe arrivato. I tipi alla Dino Zoff, se proprio devo fare un nome. A Spalato, ai suoi tempi, arrivavano le immagini della tv italiana. Sono orgoglioso della stima che ha raccontato di avere per me.

Io feci un figurone ai Mondiali del '54, i miei primi da titolare con la Jugoslavia. Battemmo la Francia per 1-0, poi pareggiammo 1-1 con il Brasile. La gente impazzì per una mia parata sui piedi di Oswaldo da Silva detto Baltazar, e noto come Cabecinha de ouro, testina d'oro. Presi tutto, tranne un tiro di Didì all'incrocio dei pali. Uscimmo ai quarti di finale con la Germania che poi avrebbe vinto il titolo.

Eravamo una bellissima squadra, nel '52 avevamo vinto l'argento olimpico, battuti in finale dall'Ungheria. Che risate in quegli anni con Vujadin, Vujadin Boskov, altro punto fermo della Jugoslavia. Chiamarono me e lui per Inghilterra-Resto d'Europa a Wembley. E ai Mondiali del '58 andammo ancora fuori ai quarti, ancora con la Germania. In Germania sarei poi andato a chiudere la carriera, per me era necessario che si raffreddasse il clima a Spalato, dove non avevano preso bene il mio passaggio del '55 a Belgrado, nella Stella Rossa, squadra certamente più cara ai signori del potere di quanto fosse l'Hajduk. Con la Stella altri 4 campionati vinti. Avrei preferito l'Italia, a essere sincero. Ho sempre avuto un debole per l'Italia, la federcalcio di Belgrado mi aveva già promesso il nulla osta per il trasferimento dopo i Mondiali del '58: all'epoca serviva il visto governativo per lasciare il Paese. Avevo un'offerta dalla Francia, un'altra dalla Spagna, in Italia scrivevano di certi miei antenati sbucati lì, girava voce che potessi essere tesserato come oriundo, e io quella voce la lasciavo girare. In realtà non se ne fece niente, sono potuto uscire dalla Jugoslavia solo nel '60, quando avevo 32 anni.

Devo tutto a Luka Kaliterna. La leggenda di Spalato. Per me era il Barba. Barba è un modo dire della mia terra per indicare un uomo anziano, un venerabile, un maestro. Sarebbe una specie di: nonno. O forse zio. Zio Luka. Mi allenava lanciandomi una pallina piccola, delle dimensioni di una palla da baseball. Ore e ore passate così. A tuffarmi. A danzare nel vuoto. Con le mani d'acciaio. Per questo in partita afferrare un pallone più grande mi pareva solo più semplice. Quando Jascin vinse il Pallone doro, dichiarò che se c'era un portiere al quale avrebbero dovuto dare il premio, ecco, quel portiere ero io. Ma avevo 35 anni e stavo smettendo. Jascin era un uomo gentile. Il mondo del calcio, per farmi un complimento, diceva che sarebbe stato più facile trovare carne di maiale a Tehran che segnare un gol a Beara. Ma di me si racconta pure che di ritorno da una trasferta a Parigi, venni fermato dalla polizia jugoslava per contrabbando. Mrkušić era con me. Trovarono le nostre valigie piene di cibo e di altre merci. Volevano sospenderci. Mi piacerebbe un giorno scrivere la mia biografia solo per raccontare come sono davvero andate molte delle cose che dicono di me. I miei anni da allenatore in Camerun, per esempio. Dove sono stato l'insegnante di N'Kono. Una cosa però potrei giurare. Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per amore.

Vladimir Beara è morto l'11 agosto 2014


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